Richiesta di applicazione della continuazione nella fase esecutiva: doveri di accertamento del giudice dell’esecuzione (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 7912/2023, udienza dell’1° febbraio 2023, chiarisce i doveri di verifica del giudice dell’esecuzione cui sia indirizzata una domanda di applicazione della continuazione tra più sentenze di condanna.

Vicenda giudiziaria

Con ordinanza la Corte territoriale, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha respinto l’istanza di XXX di applicazione della disciplina della continuazione tra le seguenti sentenze di condanna emesse nei suoi confronti: 1) sentenza del tribunale del 7 settembre del 2011 per i reati degli articoli 81 e 73 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, commesso il 4  settembre 2011; 2) sentenza della Corte d’appello del 15 luglio del 2019 per il reato dell’articolo 74 d.p.r. n. 309 del 1990, commesso dal marzo 2011 all’attualità.

In particolare, nel respingere l’istanza, il giudice dell’esecuzione ha ritenuto non vi fossero elementi che potessero deporre per la programmazione unitaria dei reati, evidenziando in particolare che la prima sentenza era di applicazione pena e non conteneva elementi sufficienti a definire il fatto, l’imputato non ha reso dichiarazioni, la mera contiguità temporale non è decisiva, e non si può escludere che il fatto sia sganciato da quello oggetto della condanna per la fattispecie associativa.

Ricorso per cassazione

Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso il condannato, per il tramite del difensore, con un unico motivo, in cui deduce che la circostanza che la prima sentenza sia di applicazione pena è irrilevante, come lo è la mancanza di dichiarazioni dell’imputato, il fatto rientra nel periodo temporale di operatività dell’associazione e nei luoghi della stessa e corrisponde anche al ruolo di spacciatore al minuto che è stato riconosciuto avere il ricorrente in essa.

Decisione della Corte di cassazione

Il ricorso è fondato.

La motivazione dell’ordinanza impugnata parte da una considerazione corretta (ovvero, che la contiguità temporale tra i reati oggetto delle sentenze indicate nell’istanza non è sufficiente a far ritenere accertate le condizioni per l’esistenza del medesimo disegno criminoso), che, però, poi sviluppa in modo non corretto ponendo a carico del condannato la circostanza che la prima delle due sentenze oggetto dell’istanza sia una applicazione pena e la circostanza che nel processo che ha portato alla seconda sentenza l’imputato non abbia inteso rendere dichiarazioni, per poi terminare con una conclusione formulata in negativo (“non può escludersi che i reati di detenzione e cessione di cocaina del 4 settembre 2011 siano stati commessi in autonomia“).

Un percorso logico di questo tipo non è, però, coerente con le regole della logica giuridica, che avrebbe imposto al giudice dell’esecuzione di partire dall’allegazione dell’istante, che nel caso in esame verteva sulla omogeneità delle violazioni e sulla contiguità temporale tra esse, per verificare se in base agli elementi del caso concreto gli ulteriori elementi che caratterizzano i due fatti-reato permettessero di ritenere che nel momento in cui è stato commesso il primo reato il secondo era stato programmato almeno nelle sue linee essenziali (Sez. U, Sentenza n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270074: “il riconoscimento della continuazione, necessita, anche in sede di esecuzione, non diversamente che nel processo di cognizione, di una approfondita verifica della sussistenza di concreti indicatori, quali l’omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, e del fatto che, al momento della commissione del primo reato, i successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali, non essendo sufficiente, a tal fine, valorizzare la presenza di taluno degli indici suindicati se i successivi reati risultino comunque frutto di determinazione estemporanea”).

Nel caso in esame, il giudice dell’esecuzione non ha condotto questa indagine sugli elementi concreti dei due fatti, e si è limitato a sostenere che la sentenza di applicazione pena e la mancanza di dichiarazioni dell’interessato non gli consentivano di comprendere le caratteristiche dei fatti-reato, il che, però, non è coerente con la soluzione della giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto che, fermo l’onere di allegazione da parte dell’istante (Sez. 1, sentenza n. 35806 del 20/04/2016, Rv. 267580), il giudice dell’esecuzione possa assumere, anche eventualmente d’ufficio, tutti i documenti e le prove di cui necessita e non deve basarsi, per decidere, solo ed esclusivamente, sulle sentenze (Sez. 1, sentenza n. 17020 del 09/01/2015, Zampaglione, Rv. 263363: “nel procedimento di applicazione della continuazione in executivis, previsto dall’art. 671 cod. proc. pen., il giudice può assumere, su richiesta di parte o “ex officio”, tutti i documenti e le prove di cui necessita e non deve basarsi, solo ed esclusivamente, sulle sentenze in relazione alle quali è richiesta l’applicazione della disciplina della continuazione”).

L’ordinanza impugnata deve, pertanto, essere annullata con rinvio per nuovo giudizio.