La sopraggiunta procedibilità a querela non giova all’imputato il cui ricorso sia dichiarato inammissibile (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 18508/2023, udienza del 20 aprile 2023, identifica con rara chiarezza il rapporto tra mutamenti normativi favorevoli e ammissibilità del ricorso per cassazione.

Come noto, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, il reato di cui all’art. 590 bis cod. pen. è procedibile a querela di parte salvo che nelle ipotesi aggravate previste dai commi 2 e seguenti.

Nel caso in esame la persona offesa non ha proposto querela sicché ci si deve chiedere se la nuova disciplina possa trovare applicazione pur in presenza di motivi di ricorso inammissibili.

È opinione del collegio che la risposta debba essere negativa.

Questa Corte di legittimità ha già affrontato una analoga questione quando è entrato in vigore il d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36 per effetto del quale alcuni reati divennero procedibili a querela di parte. Sul punto intervennero le Sezioni unite con la sentenza n. 40150 del 21/06/2018, Salatino, Rv. 273551. Facendo ampio riferimento ai principi affermati in altre decisioni precedenti (in particolare, Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266819), il supremo collegio affermò «che l’art. 129 cod. proc. pen. non attribuisce al giudice un  potere di giudizio ulteriore ed autonomo rispetto a quello già riconosciutogli dalle specifiche norme che regolano l’epilogo del processo, ma enuncia una regola di condotta rivolta al giudice che presuppone il pieno esercizio della giurisdizione.

Non riveste, cioè, per quanto qui interessa, una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità, attribuendo al giudice dell’impugnazione un autonomo spazio decisorio svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma enuncia una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo e che presuppone la proposizione di una valida impugnazione» (così testualmente pag. 15 della motivazione).

L’argomentazione si attaglia perfettamente anche al caso in esame. Consente, infatti, di escludere che il procedimento sia “pendente” in presenza di un ricorso inammissibile.

Come sottolineato anche dalla sentenza n. 12602/2015, tale affermazione non è in contrasto con i diritti fondamentali sul giusto processo garantiti dalla CEDU. È onere della parte interessata, infatti, attivare correttamente il rapporto processuale di impugnazione, con la conseguenza che il mancato rispetto delle regole processuali paralizza i poteri cognitivi del giudice e non vengono perciò in considerazione l’equità o la razionalità del processo.

La sopravvenienza della procedibilità a querela, peraltro, ha valore ben diverso dalla abolitio criminis e la giurisprudenza ha costantemente escluso che il giudice dell’esecuzione possa revocare la condanna rilevando la mancata integrazione del presupposto di procedibilità (in tal senso, da ultimo: Sez. 1, n. 1628 del 03/12/2019, dep. 2020, Rv. 277925; sull’argomento anche: Sez. 2, n. 14987 del 09/01/2020, Rv. 279197).

Come opportunamente rilevato dalla sentenza n. 40150/2018, inoltre, la mancanza della condizione di procedibilità viene comunemente trattata nel giudizio di legittimità come una questione di fatto, soggetta alle regole della autosufficienza del ricorso (cfr. Sez. 6, n. 44774 del 08/10/2015, Rv. 265343) e ai limiti dei poteri di accertamento della Cassazione (cfr. Sez. 3, n. 39188 del 14/10/2010, S., Rv. 248568), sicché non può dirsi che la declaratoria di inammissibilità sia destinata ad essere messa in crisi da una ipotetica, incondizionata necessità di verifica dello stato della condizione di procedibilità come richiesta dalla normativa subentrata (in tal senso Sez. U, n. 40150 del 21/06/2018, Salatino, Rv. 273551 pag. 16 della motivazione).

In conclusione, la disciplina codicistica dei mutamenti normativi favorevoli diversi dalla abolitio criminis non consente di sostenere che, nel rapporto tra ricorso inammissibile e innovazioni normative che introducono la procedibilità a querela, debbano applicarsi regole diverse da quelle che, in base alla giurisprudenza assolutamente prevalente, si applicano nei rapporti tra ricorso inammissibile e mutamenti normativi favorevoli in materia di cause di non punibilità e, in particolare, di cause estintive del reato, aventi natura più marcatamente sostanziale.

Ne consegue che le innovazioni in materia di procedibilità a querela possono operare retroattivamente, ma tale retroattività incontra un limite nella presentazione di un ricorso inammissibile.

Nessuna indicazione in senso contrario può essere tratta dalla disciplina transitoria dettata dall’art. 85 d.lgs. n. 150/2022. Il legislatore, infatti, si è limitato a prevedere una generale restituzione nel termine per querelare che, per i reati in precedenza procedibili d’ufficio, decorre dalla data di entrata in vigore della riforma, secondo il brocardo “lex interpellat pro iudice”. Non ha fatto altro, quindi, che avvalersi della possibilità contemplata dall’art. 124, comma 1, cod. pen. che, con l’espressione «salvo che la legge disponga altrimenti», consente di far decorrere il termine per querelare da un giorno differente rispetto a quello in cui la persona offesa ha avuto notizia del fatto che costituisce reato.

Com’è evidente, una disciplina siffatta non può incidere sul rapporto tra le innovazioni normative in materia di procedibilità e l’inammissibilità del ricorso e poiché tale inammissibilità, anche se dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi, non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione la si deve dichiarare senza che vi sia necessità di verificare se la persona offesa abbia proposto querela o intenda farlo (in tal senso, con riferimento ad altri casi in cui il d.lgs. n. 150/2022 ha introdotto la procedibilità a querela: Sez. 4, n. 2658 del 11/01/2023, Rv. 284155; Sez. 4 n.6143 del 10/01/2023, non massimata; Sez. 1, n. 10692 del 03/02/2023, non massimata; Sez. 5, n. 15222 del 21/03/2023, non massimata).