Oneri dimostrativi per il ricorrente che deduca il vizio di motivazione (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 37876/2023, udienza del 12 settembre 2023, chiarisce gli oneri argomentativi spettanti al ricorrente che denunci il vizio di motivazione.

Non sono coltivabili nella sede di legittimità – e sono dunque inammissibili – i motivi, con i quali si lamenta violazione della regola di giudizio di cui all’art. 533, fondata sul canone di cui al comma 2 dell’art. 192 cod. proc. pen., oltre alla manifesta illogicità della motivazione in punto di valutazione delle prove atte a dimostrare la responsabilità per i fatti-reato ascritti, allorquando i motivi si limitino a illustrare una possibile alternativa al concatenarsi logico posto a fondamento della decisione impugnata, senza dimostrare che tale alternativa sia l’unica logicamente plausibile (Sez. 6, n. 11194 del 8/3/2012, Rv. 252178).

Tanto chiarito quanto all’ambito del sindacato di legittimità sulla motivazione della sentenza d’appello, va rilevato come le deduzioni opposte dal ricorrente alla motivazione di merito, che dà conto del ritenuto mancato superamento del dubbio ragionevole, siano volte a sollecitare una diversa valutazione delle emergenze processuali (in particolare, del peso degli argomenti offerti con le prove logiche assunte nel corso del giudizio di primo grado), operazione che, a fronte del preciso ancoraggio alle emergenze processuali e del rigore logico giuridico che connota le scansioni dell’iter argomentativo della decisione impugnata, non può trovare spazio in sede di legittimità.

Il tema è quello della solida e razionale giustificazione complessiva che la motivazione deve offrire circa il valore persuasivo attribuito agli elementi posti a sostegno della decisione e circa l’irrilevanza degli elementi prospettati – nella dialettica delle parti – come antagonisti (cfr., in particolare, Sez. 6, n. 6582 del 13/11/2012, Rv. 254572; Sez. 2, n. 44048 del 13/10/2009, Rv. 245627; Sez. 1, n. 16523 del 4/12/2020, dep. 2021, Rv. 281385 – 01).

È del tutto evidente che tale compito deve essere svolto dal giudice di legittimità attraverso la verifica della razionalità argomentativa (e della proiezione finalistica) dei passaggi espressivi in cui si articola la decisione e non mediante una impropria rivalutazione ‘diretta’ di singoli elementi istruttori o mediante l’apprezzamento ‘diretto’ di prospettazioni difensive su piste alternative rimaste, a parere del ricorrente, inesplorate.

La critica deve pertanto porsi il problema di individuare una reale frattura logica o una reale inefficacia funzionale, di tale percorso complessivo, in quanto si è affermato che il giudizio di legittimità non si costruisce sull’esame delle possibilità rappresentative – anche plausibili – del fatto, ma sulla opzione del fatto come recepita dal giudice di merito, nel senso che il controllo sulla corretta applicazione dei canoni logici e normativi che presidiano l’attribuzione del fatto all’imputato passa necessariamente attraverso l’analisi dello sviluppo motivazionale della decisione impugnata e della sua intima coerenza logico-giuridica, non essendo possibile compiere in sede di legittimità «nuove» attribuzioni di significato – o realizzare una diversa lettura dei medesimi dati dimostrativi e ciò anche nei casi in cui si ritenga preferibile una diversa lettura, maggiormente esplicativa (si veda, ex multis, Sez. 6, n. 11194 del 8/3/2012, Rv. 252178) e sempre che – al fondo – non risulti compromessa la tenuta complessiva del ragionamento, in chiave di avvenuto rispetto della regola di giudizio finale. Consegue che la doglianza di illogicità può essere accolta solo quando il ragionamento non si fondi realmente su una massima di esperienza (cioè su un giudizio ipotetico a contenuto generale, indipendente dal caso concreto, fondato su ripetute esperienze, ma autonomo da esse e valevole per nuovi casi), e valorizzi piuttosto una congettura (cioè una ipotesi non fondata sull’id quod plerumque accidit, insuscettibile di verifica empirica o logicamente scorretta), o una pretesa regola generale che risulti priva, però, di qualunque e pur minima plausibilità.