La giustizia riparativa e le difficili sfide che l’attendono (di Vincenzo Giglio)

L’ordinanza della Corte di assise di Busto Arsizio

Sta facendo molto discutere la recentissima ordinanza della Corte di assise di Busto Arsizio, emessa dopo la definizione del primo grado del giudizio a carico di DF che è stato riconosciuto responsabile dell’uccisione di CM e della mutilazione e soppressione del suo cadavere e condannato alla pena complessiva di 30 anni di reclusione.

Il provvedimento è stato stimolato dalla richiesta dell’imputato di essere ammesso ad un programma di giustizia riparativa, motivata dalla “volontà di riparare alle conseguenze del proprio gesto“.

Nell’apposita udienza DF e la sua difesa hanno insistito per l’accoglimento dell’istanza mentre il PM e il difensore delle parti civili ne hanno chiesto il rigetto, quest’ultimo comunicando peraltro che nessuna di esse è disponibile ad avere rapporti, anche solo mediati, con l’imputato.

La Corte ha assunto alcune premesse dalle quali è poi derivata la decisione di accoglimento:

  • fin dalla fase delle indagini preliminari DF ha mostrato “la seria, spontanea ed effettiva volontà di riparare alle conseguenze del reato” e ha chiesto scusa ai familiari della vittima fin dalla prima udienza dibattimentale;
  • l’avvio del programma di giustizia riparativa prescinde dal consenso di tutte le parti interessate e il suo svolgimento, se ritenuto esperibile dai mediatori, potrebbe servire a risolvere le questioni derivanti dal fatto per cui si procede e a ricomporre la frattura che il fatto illecito genera tra l’autore del reato e la vittima così come all’interno del contesto sociale di riferimento;
  • la giustizia riparativa ha una natura eminentemente pubblicistica e serve a favorire un clima di sicurezza sociale sicché, conformemente alla chiara volontà del legislatore, va agevolata la sua applicazione;
  • date le predette caratteristiche che vanno ben oltre l’imputato e il giudizio cui è sottoposto, è irrilevante la fase processuale in cui l’istanza viene proposta e discussa;
  • il programma, ove ammesso, non arrecherebbe alcun pregiudizio al processo, ed in particolare all’accertamento dei fatti, data la già avvenuta conclusione del giudizio di primo grado;
  • si può ugualmente escludere che ne possa derivare alcun pericolo concreto per i familiari della vittima e questo vale anche per il minore di sette anni;
  • peraltro, ove il dissenso delle parti civili fosse confermato dinanzi al mediatore, diverrà necessario predisporre un programma con vittima “aspecifica”, ed anche per questa ragione si può ritenere l’assenza di rischi per gli interessati.

Tutto ciò premesso, la Corte di assise ha disposto l’invio del caso al Centro per la giustizia riparativa e la mediazione penale del Comune di Milano, chiedendogli di valutare la fattibilità  in concreto di un programma anche con vittima “aspecifica”.

Le reazioni

Dopo la pubblicazione dell’ordinanza il difensore delle parti civili, intervistato dall’ANSA (a questo link per l’articolo), ha reso questa dichiarazione: “Ho avvisato il mio assistito [il riferimento è al padre della vittima, ndr], che vive ad Amsterdam, della decisione della Corte … Si è detto sconvolto e schifato da una giustizia che ammette un assassino reo confesso, che ha ucciso, fatto a pezzi ed eviscerato una ragazza, di accedere ad un percorso simile“.

Sfavorevole è anche l’opinione di M. Bouchard, presidente onorario di Rete Dafne Italia, espressa sulla rivista Lavialibera fondata da Libera e Gruppo Abele (a questo link per la consultazione): “La decisione della Corte d’assise di Busto Arsizio favorevole alla richiesta di programma riparativo per DF ci ha profondamente turbato. Secondo noi l’ordinanza contiene alcuni errori in diritto. Ma non è questo il punto. L’ordinanza della Corte d’Assise rompe il nucleo fondamentale della giustizia riparativa costituito dall’incontro tra persone separate nel processo ordinario, ma desiderose di provare a riavvicinarsi, liberamente e volontariamente, per mettere in comune la disgrazia di aver perso qualcosa o qualcuno e la disgrazia di dover fare i conti con il potere dello Stato, che può anche essere distruttivo. La Corte d’assise viola il sentimento d’ingiustizia che a distanza di un anno e mezzo dall’omicidio di CM, provano ancora le vittime alla sola idea di incontrare l’imputato e non riesce a cogliere nella loro indisponibilità il rischio di una clamorosa vittimizzazione secondaria, che in questo caso – lo dice la Direttiva europea 2012 che sul punto ha effetto diretto – dovrebbe essere addirittura presunta, poiché una di esse ha appena compiuto sette anni ed è figlio dell’uccisa. La Corte d’assise lede lo stesso ruolo di mediatori perché li scavalca stabilendo in loro vece la fattibilità del programma riparativo mediante ricorso a vittime sostitutive(quante? di quale età?): e che fardello dovrà portare la vittima sostituiva nel mettersi nei panni di chi si è rifiutato di entrare nella stanza del mediatore? Quale idea di giustizia riparativa esprime la magistratura di fronte a lutti che richiedono anni di lavoro su se stessi – sopravvissuti e autori di reato – per trovare riparo, per sperimentare riparazioni e possibilità d’incontro?“.

Dalle colonne del quotidiano Il Dubbio (a questo link), il prof. G.L. Gatta, ordinario di diritto penale alla Statale di Milano e vicepresidente della Scuola superiore della magistratura, sottolinea invece l’importanza della giustizia riparativa come strumento non alternativo ma complementare agli strumenti ordinari della giustizia penale, invita ad una corretta informazione sull’istituto per scongiurare facili allarmismi ed esclude che la sua applicazione, come pure è stato sostenuto, renda trascurabile il ruolo difensivo ed esalti quello della vittima a scapito dell’imputato. Aggiunge che è compito degli atenei, a partire dalle facoltà di giurisprudenza, e dei successivi ambiti formativi specializzati offrire a studenti e professionisti gli strumenti di conoscenza e consapevolezza indispensabili perché la giustizia riparativa acquisti la centralità sulla quale tanto ha puntato la riforma Cartabia.

Il commento

La giustizia riparativa non avrebbe potuto trovare un banco di prova più estremo di quello col quale si è confrontata la Corte di assise di Busto Arsizio.

Da una parte un omicidio brutale in ognuna delle fasi che l’hanno caratterizzato, lo strazio dei familiari della vittima, lo sconcerto che una vicenda così scabrosa è in grado di generare nei territori e tra le comunità in cui si verifica, le ondate di indignazione che seguono alla divulgazione dei dettagli, la richiesta della cosiddetta “pena esemplare”; dall’altra un istituto di nuova concezione, dal cammino difficoltoso già in sede di approvazione e un organo giudiziario che, pur avendo condannato l’imputato a trent’anni di galera (il cumulo materiale sarebbe stato di 34 anni, poi diminuiti a 30 nel rispetto del limite imposto dall’art. 78, comma 1, n. 1, cod. pen.), poi dice sì alla sua richiesta di consentirgli di espiare come meglio può il male che ha fatto.

Un conflitto profondo, irriducibile, che mette a nudo e stressa al massimo grado sentimenti tra i più viscerali di ogni essere umano: odio, rancore, desiderio di vendetta, dolore.

Sono dunque comprensibili e legittimi tutti i no opposti dal padre della vittima e tutti i dubbi sulla coerenza della scelta della Corte posti da Bouchard.

Eppure, il punto essenziale sta altrove: fa bene lo Stato-giustizia ma in ugual misura lo Stato-sicurezza a dotarsi dello strumento della giustizia riparativa, a credere nella sua efficacia rieducativa e conciliativa, a ritenere possibile che vittime e carnefici trovino strade comuni fino ad incontrarsi?

Ed ancora e con uguale importanza: come sono fatte e cosa desiderano davvero le comunità locali e la comunità nazionale nel cui interesse la giustizia riparativa è stata concepita ed attuata ed ora anche applicata?

Domande difficili e risposte complicate.

Ci aiuta una bella riflessione di F. Palazzo, Plaidoyer per la giustizia riparativa, pubblicata su La legislazione penale, alla fine del 2022 (scaricabile a questo link).

Un primo indizio è dato dallo stesso titolo: la giustizia riparativa ha bisogno di essere difesa (il termine francese plaidoyer significa appunto difesa ma anche arringa difensiva).

L’Autore lo riconosce esplicitamente: dinanzi a qualche manifestazione – anche autorevole – diretta a ridimensionare e fors’anche a ridicolizzare la giustizia riparativa, occorre ribadire che essa costituisce una questione molto seria. Una questione ancora aperta, certo; e un’idea di difficile implementazione nel sistema, ancora più certamente. Ma rimane pur sempre un’idea tutt’altro che trascurabile o risibile. La giustizia riparativa non può essere ricondotta al novero dei tanti espedienti per contribuire a realizzare il pur auspicato traguardo della deflazione e dell’efficienza del sistema. La giustizia riparativa non può nemmeno essere considerata uno degli strumenti della rieducazione, magari tentando di conseguenza di confinarla esclusivamente nella fase esecutiva, essendo essa qualcosa di profondamente diverso dalla rieducazione non foss’altro per il ruolo che vi gioca la vittima. La giustizia riparativa non può nemmeno essere vista, con maggiore o minore condiscendenza, come un’ingenua illusione di utopisti affetti da buonismo umanitario o sentimentale“.

Una giustizia nuova, dunque, e dal senso largo: “l’accezione in cui qui viene assunto il sintagma giustizia riparativa è quella in senso largo, non coincidente cioè né limitato alla riparazione pecuniaria o patrimoniale dell’offesa o alla sua eliminazione totale o parziale, bensì tutta proiettata verso l’obiettivo di una ricomposizione del conflitto interpersonale considerato anche nelle sue componenti emotive: e indubbiamente questa accezione larga e obiettivamente indeterminata e quasi sfuggente può già costituire un motivo di diffidenza verso quello strumentario giuridico-normativo tendente alla realizzazione di quel risultato. Ma è ormai fuori discussione che questo senso largo è per l’appunto quello fatto proprio dal d.lgs. 150/2022 là dove fornisce le definizioni generali: «esito riparativo» è «qualunque accordo, risultante dal programma di giustizia riparativa, volto alla riparazione dell’offesa e idoneo a rappresentare l’avvenuto riconoscimento reciproco e la possibilità di ricostruire la relazione tra i partecipanti» (art. 42.1)“.

Una giustizia necessariamente relazionale, come qualsiasi forma di giustizia: “La giustizia, la giustizia tout court, è sempre una questione di relazione tra soggetti diversi. Sono ben quattro i soggetti coinvolti nella questione della giustizia: l’autore, la vittima, la comunità, l’istituzione statale. Essendo sostanzialmente autoevidente il ruolo svolto dall’autore, dalla vittima e dall’istituzione statale, val la pena invece spendere due parole su quello svolto dalla comunità, notando tra parentesi che essa è sempre più spesso chiamata a inserirsi nella dinamica della vicenda punitiva anche al di fuori del perimetro della giustizia riparativa nel senso sopra precisato. Ebbene, la comunità può essere coinvolta a doppio titolo. Da un lato, il senso di solidarietà tra i componenti del gruppo e soprattutto il fenomeno di identificazione con l’altro, che costituiscono appunto il legame comunitario, fanno sì che l’offesa criminosa “si propaghi” – per così dire – dalla singola vittima agli altri membri della comunità, che finisce dunque per essere coinvolta sotto questo profilo di stampo essenzialmente socio-psico-emotivo e di carattere generale. Dall’altro lato, specificamente allorché si tratti di offese penalmente rilevanti, la consistenza di queste ultime è tale da attingere livelli capaci di mettere a repentaglio la stessa sopravvivenza della comunità: così che quest’ultima finisce per essere qualificabile essa stessa come vittima, più o meno diretta, del reato“.

Ma con un’importante differenza rispetto alla giustizia tradizionale: “Nell’orizzonte della giustizia riparativa tutto cambia radicalmente. La relazione di giustizia non è più bilaterale, ma torna ad essere quadrilaterale. L’istituzione statale fa un passo indietro o comunque cessa di essere così preponderante da sbilanciare i rapporti tra i soggetti del quadrilatero. E si pone, invece, un acuto problema di definirne meglio il ruolo. In sostanza tutto diventa più complesso e il compito principale dei giuristi, legislatore studiosi ed operatori, diventa quello di trovare il modo di governare questa complessità, senza cedere alla tentazione del rifiuto del nuovo. Primaria diventa certamente la relazione tra autore e vittima, in una duplice dimensione. Prima di tutto già nella dimensione criminogenetica e nel momento per così dire iniziale della relazione, vale a dire come situazione di conflitto interpersonale da cui scaturisce la commissione del reato. Senza l’analisi e la comprensione di questa relazione inziale non è nemmeno pensabile alcun intervento o percorso riparativo del conflitto. In secondo luogo, la relazione autore/vittima va considerata nella sua dimensione compositiva e per così dire finale, vale a dire quale risultato di superamento del conflitto acuito ed esasperato dal reato, al quale tende lo sforzo riparativo di entrambe le parti per recuperare equilibrio e stabilità del rapporto. Non c’è dubbio che, nel quadrilatero, è proprio la relazione autore/vittima che si pone in maggiore tensione e divergenza rispetto al paradigma tradizionale della giustizia punitiva“.

La riflessione di Palazzo è davvero densa di intuizioni e prospettive ma qui, per concludere, se ne sceglie una soltanto ed è quella che riguarda il ruolo della comunità: “Nella relazione quadrilaterale della giustizia riparativa c’è, infine, un altro soggetto cui non può non essere riconosciuto un ruolo davvero decisivo. Si tratta della “comunità”. Sebbene essa sia di recente diventata molto presente anche nei meccanismi e negli istituti tradizionali ispirati alla finalità rieducativa, non c’è dubbio che della sua interlocuzione non si può proprio prescindere nella dinamica della giustizia riparativa. Innanzitutto perché, in una logica – com’è quella quadrilaterale – in cui la comunità non è interamente riassorbita nello Stato e nella rappresentatività simbolica che esso può assicurare, la comunità è vittima più o meno diretta del fatto offensivo nella concretezza del suo esistere e sentire psico-sociale. Con l’ovvia conseguenza che non vi potrà mai essere reale ricomposizione del conflitto senza un effettivo coinvolgimento anche della comunità. E pertanto bene ha fatto la recente riforma a prevedere norme dirette a favorire siffatto coinvolgimento, sebbene ciò possa costituire un fattore di complicazione nella gestione dei percorsi riparativi“.

E tuttavia “la comunità può anche giocare un ruolo avverso alla giustizia riparativa, ostacolando i suoi percorsi orientati alla ricomposizione del conflitto. E pertanto, se si vuole agevolare l’esito auspicabilmente positivo dei percorsi riparativi, è necessario in qualche modo “neutralizzare” il possibile ruolo avverso svolto dalla comunità coinvolgendola negli itinerari della riparazione. In effetti, la comunità non è sempre, necessariamente e quasi per definizione, un fattore positivo per l’integrazione sociale dell’individuo. Dalla parte dell’autore, la comunità può infatti svolgere un ruolo criminogenetico, quando costituisce il terreno di coltura del reato o addirittura della personalità criminale: basti pensare al riguardo a certe realtà della criminalità che si alimentano nella cerchia “familiare” sebbene non arrivino ad assumere i caratteri della vera e propria criminalità organizzata. Ed allora diventa chiaro che, rispetto a tali manifestazioni, non è possibile portare l’autore lungo i sentieri della giustizia riparativa se non si provvede ad un coinvolgimento della sua comunità in modo da neutralizzarne l’effetto potenzialmente avverso. Dalla parte della vittima, la comunità può altrettanto negativamente ostacolare il percorso riparativo tutte le volte in cui essa tenda, più che a sostenerla, a chiuderla in una sorta di bozzolo difensivo che può facilmente alimentare qualche reazione venata da atteggiamenti sostanzialmente vendicativi: sono i casi in cui il vincolo comunitario, invece di dare la forza per aprirsi al dialogo con la vittima, alimenta reazioni psicologiche di rivalsa aggressiva che magari senza il sostegno comunitario non si produrrebbero. Anche qui, pertanto, l’intrapresa riparativa non può avere chances se non si coinvolge la stessa comunità della vittima per neutralizzarne il possibile effetto avverso“.

Considerazioni lucide e oneste che danno l’idea dell’elevata sfida che il paradigma riparativo pone a tutti gli attori chiamati in causa per la sua attuazione.

È antiumano immaginare che carnefici e vittime arrivino a tendersi la mano?

È velleitario sperare che in una stagione in cui sembrano prosperare l’odio e la diffidenza le comunità si trasformino in centri di riconciliazione e pacificazione sociale?

Forse sì ma vale davvero la pena tentare, di meglio non abbiamo.