Beniamino Zuncheddu: 33 anni in carcere per un “riconoscimento” traballante (di Riccardo Radi)

Sono 12045 giorni che sono in carcere da innocente ed ora sono stanco di resistere e voglio il riconoscimento della mia innocenza prima di morire”.

Questa frase rispecchia lo stato d’animo di un uomo entrato ragazzo in carcere ed ora vecchio prematuramente, per essere stato costretto a vivere una vita che non gli apparteneva e che ora chiede verità e giustizia.

Beniamino Zuncheddu è in carcere dal 1991, era un ragazzo di 27 anni pieno di speranze e di vita ed ora è un uomo di 60 anni invecchiato malamente.

Sono tre anni che il suo processo di revisione si trascina davanti alla Corte di appello di Roma che ora sembra voglia dare una risposta in tempi ragionevoli alla richiesta di giustizia avanzata, badate bene, anche dalla Procura Generale di Cagliari che non crede alla colpevolezza di Beniamino Zuncheddu, assistito dall’avvocato Mauro Trogu.

All’udienza del 19 settembre la Corte ha disposto un rinvio al 13 ottobre.

Finalmente un rinvio breve dopo rinvii di 6/7 mesi tra una udienza e l’altra, nonostante le significative acquisizioni dell’udienza del 22 novembre del 2022.

Il perito Ignazio Garau è stato ascoltato ed ha depositato il suo elaborato trascrittivo sulle intercettazioni telefoniche ed ambientali che confermano quanto sostenuto dall’ex procuratrice generale di Cagliari Francesca Nanni, oggi in servizio a Milano, e dall’avvocato Mauro Trogu, difensore di Zuncheddu.

La prova che ha condotto all’ergastolo Zuncheddu non è solida ed anzi emerge che l’unico teste oculare della vicenda potrebbe non aver detto la verità.

Luigi Pinna (il teste oculare), convocato in Procura, viene intercettato in auto e nelle conversazioni con la moglie che lo accompagna mentre dice: “volevano che io dicessi … volevano che io dicessi per forza che Marieddu mi ha mostrato una foto prima … non capisci: volevano che io dicessi per forza quello. Quello è accaduto! E loro lo hanno ben capito che è così, la verità”.

Il passo è così drammaticamente esplicito che risulta inutile ogni commento o parafrasi.

Un’altra frase di Pinna sembrerebbe suggerire la stessa conclusione: “sulla questione che … che inizialmente ho detto che … laa … la calzamaglia …. Non se la sono bevuta.

Due passaggi rivelatori: il teste oculare, le cui dichiarazioni sono state cruciali per la condanna di Beniamino Zuncheddu, potrebbe non essere così attendibile come era ritenuto dai giudici di merito.

Risulta dagli atti che il Pinna inizialmente raccontò che l’aggressore omicida portava un collant da donna in testa e solo dopo aver interloquito molte volte con Mario Uda si convinse a modificare quella circostanza, affermando che l’aggressore avrebbe agito a volto scoperto.

L’espressione “non se la sono bevuta” potrebbe riferirsi alla indicazione secondo la quale l’assassino avrebbe agito a volto scoperto.

Sembrano dunque esserci le condizioni per rimettere in discussione ciò che veramente successe nella cosiddetta strage di Sinnai, avvenuta nel cagliaritano l’8 gennaio 1991.

Quel giorno, in prossimità di un ovile in territorio di Sinnai, vennero uccisi Gesuino Fadda, proprietario dell’ovile, suo figlio Giuseppe e il pastore Ignazio Pusceddu e venne ferito Luigi Pinna, il teste sopravvissuto al massacro.

Inizialmente Pinna raccontò che l’assassino aveva il volto coperto da una calza da donna e quindi non era in grado di riconoscere l’autore.

Le sue dichiarazioni vennero raccolte dal carabiniere Angelo Calabrese nell’ambulanza che conduceva il Pinna in ospedale.

Passarono i giorni e il testimone cambiò versione: raccontò di poter riconoscere l’aggressore che in realtà non avrebbe avuto il volto travisato.

In un riconoscimento fotografico indicò Beniamino Zuncheddu quale autore della strage.

Seguì la condanna di costui all’ergastolo.

Oltre alle parole sconvolgenti del teste oculare sono molti i motivi per dubitare della colpevolezza di Beniamino Zuncheddu che per tante circostanze risulta non essere l’uomo che, con precisione “paramilitare” si era reso responsabile di un’azione “preparata nei minimi dettagli” e “non alla portata di tutti”, virgolettati, questi, corrispondenti ad altrettante considerazioni dei giudici nelle sentenze che hanno accompagnato Zuncheddu all’ergastolo.

Chi aveva agito sapeva quanti fossero e dove si trovassero i bersagli, conosceva i luoghi e aveva scelto una posizione agevole per poi colpire con sette fucilate le vittime.

Non è secondario peraltro evidenziare che la revisione del processo è stata richiesta dalla Procura generale di Cagliari che nella ponderosa richiesta di 125 pagine sottolinea le numerose circostanze incongruenti nella vicenda processuale di Zuncheddu.

Prima circostanza: Beniamino Zuncheddu ha “una spalla fuori uso dalla nascita” e dunque non avrebbe potuto imbracciare e utilizzare l’arma con la rapidità e sicurezza necessarie, tenuto conto che il killer aveva dovuto agire in pochi minuti.

Seconda circostanza: le condizioni di luce al momento del fatto e la posizione del teste oculare lasciano interdetti sulla reale possibilità che possa aver visto le fattezze dell’assassino. La scena del crimine è stata ricostruita attentamente dai consulenti della difesa che hanno dimostrato le precarie condizioni di visuale dell’unico testimone. In particolare un colonnello dei carabinieri dell’ufficio tecniche investigative di Velletri ha ricostruito con uno scanner 3D la scena del crimine ed ha dimostrato che il teste nella posizione descritta all’interno dell’ovile non avrebbe mai potuto riconoscere le fattezze di un uomo con le condizioni di luce presenti, anche se l’assassino fosse stato a volto scoperto.

Terza circostanza: nelle 125 pagine della richiesta di revisione, l’ex procuratrice generale di Cagliari Francesca Nanni e l’avvocato Mauro Trogu sono entrambi convinti che l’unico teste abbia dichiarato il falso.

La Procura punta il dito contro il sopravvissuto (cui attribuisce una “falsa testimonianza”) e chiama in causa anche un ex sovrintendente di Polizia, tale Mario Uda, che avrebbe “sviato le indagini convincendo” Pinna “a dichiarare il falso”. Questi “forse si era convinto che Zuncheddu fosse colpevole” sulla base di fonti confidenziali e avrebbe “inquinato” le indagini facendo pressioni di vario tipo al teste oculare.

L’inquinamento delle indagini si sarebbe concretizzato quando fu mostrata al testimone la fotografia del pastore di Burcei “in anticipo” rispetto al riconoscimento ufficiale avvenuto circa dopo 40 giorni i fatti davanti al PM. Se così fosse, “l’unica fonte di prova” a carico di Zuncheddu sarebbe “inattendibile” pur rappresentando la “prova regina per la condanna”.

Tali dubbi sono suffragati dall’iniziale versione di Pinna il quale, nell’ambulanza che lo porta in ospedale, dichiara ai carabinieri di non poter riconoscere l’assassino perché “aveva un collant da donna sul volto”; un mese e mezzo dopo aveva cambia versione e sostiene che in realtà l’assassino era a volto scoperto ed identificabile. Era il 22 febbraio 1991. In quei quaranta giorni il teste ha avuto numerosi colloqui con agenti della Criminalpol. Un palese condizionamento del testimone.

Quarta circostanza: le trascrizioni delle intercettazioni ambientali sull’auto del testimone oculare quando nel febbraio 2020, già avviata la nuova inchiesta a Cagliari, Pinna era stato convocato in Procura generale per ricordare quanto accaduto.

Si attende adesso la prossima udienza, fissata per il 13 ottobre 2023.

Terzultima Fermata continuerà a seguire questa vicenda che, ove arrivasse all’esito che al momento appare ben possibile, andrebbe ad aggiungersi con fragore ai tanti, troppi, errori giudiziari della nostra giustizia.