Fallimenti e concordati preventivi: durano troppo e servono a poco secondo uno studio della Banca d’Italia (di Vincenzo Giglio)

Lo scorso mese di luglio la Banca d’Italia ha pubblicato, all’interno della collana Occasional Papers, uno studio intitolato Le caratteristiche e la durata dei fallimenti e dei concordati preventivi, allegato alla fine del post.

Gli Autori sono partiti da una condivisibile constatazione: “Il funzionamento delle procedure di ristrutturazione e di liquidazione giudiziale ha rilevanti implicazioni per il sistema economico. Da un lato, influenza ex ante le decisioni di finanziamento degli intermediari e, attraverso questa via, le scelte di investimento e occupazione da parte delle imprese (Rodano, 2021; Rodano et al., 2016). Dall’altro, incide ex post sulla riallocazione dei fattori produttivi quando un’impresa entra in crisi (Bernstein et al., 2019; McGowan e Andrews, 2016)“.

Su questa premessa, hanno analizzato il funzionamento e gli esiti delle procedure di fallimento e concordato preventivo definite nel 2019, utilizzando a tal fine i dati del Ministero della Giustizia estratti dai registri informatizzati in uso presso gli uffici giudiziari e disaggregati a livello di singola procedura (fascicolo).

Hanno verificato anzitutto che la procedura liquidatoria è quella predominante.

Nell’anno di riferimento vi sono stati 11.035 fallimenti, 2.066 concordati preventivi, 340 liquidazioni coatte amministrative e 274 accordi di ristrutturazione.

I principali risultati dello studio sono riassunti come segue.

Per quanto riguarda i fallimenti, l’analisi mostra che quasi la metà delle procedure (44,4 per cento) si conclude senza alcun riparto e quindi con nessuna soddisfazione per i creditori. Questo fenomeno è più rilevante al Centro (51,7 per cento) e al Sud (54,6 per cento) rispetto al Nord (35,5 per cento).

La durata media delle procedure fallimentari è di sette anni e un mese. È più elevata quando il fallimento si conclude con riparto (otto anni e nove mesi) ma è significativa anche quando termina senza riparto (cinque anni). La durata delle procedure senza riparto è quasi dimezzata (48 per cento in meno) quando non si effettua l’accertamento del passivo per la mancanza di attivo da distribuire (art. 102 l. fall.). Tuttavia, questa possibilità è utilizzata in meno di un terzo delle procedure chiuse senza riparto. Anche per la durata emergono significative eterogeneità territoriali: essa è sensibilmente più elevata al Sud, indipendentemente dall’esito della procedura.

Tra le diverse fasi della procedura, quella che richiede il tempo maggiore è la liquidazione dei beni che pesa per circa i due terzi della durata complessiva delle procedure chiuse con ripartizione e per più della metà in quelle chiuse senza ripartizione. Nell’ordinamento è prevista la possibilità che vi siano distribuzioni di somme ai creditori ancora prima della conclusione della procedura (riparti parziali): tuttavia essi avvengono solo nel 20 per cento dei casi in cui vi è ripartizione.

Relativamente ai concordati preventivi, solamente un quinto delle domande giunge alla definitiva approvazione del piano da parte dei creditori e del tribunale (omologazione). Per quel che riguarda la fase di esecuzione del piano, fra i concordati omologati, poco più dell’80 per cento viene eseguito con successo, mentre nei restanti casi viene dichiarato il fallimento dell’impresa. La fase giudiziale del concordato dura circa un anno e mezzo, quella esecutiva cinque anni e otto mesi. Per quanto il concordato sia generalmente identificato come una procedura che ha come scopo la ristrutturazione, circa due terzi dei concordati preventivi omologati nel 2019 avevano finalità liquidatoria.

Con lo scopo di facilitare l’accesso al concordato, nel 2012 è stata introdotta la possibilità di presentare domanda in forma semplificata (“con riserva”), godendo della sospensione delle azioni esecutive durante la redazione del piano. A seguito di tale riforma è aumentato il numero di concordati omologati e quindi l’accesso allo strumento; allo stesso tempo è diminuito il tasso di ammissione, segnalando un potenziale uso del concordato con riserva a fini dilatori. Le riforme del 2013, volta a ridurre l’utilizzo strumentale del concordato con riserva, e del 2015, che pone limiti al concordato liquidatorio, hanno ridotto il numero assoluto di concordati iscritti e omologati, senza aumentare i tassi di ammissione e omologazione.

Le evidenze riportate in questo studio indicano che per ridurre la durata complessiva delle procedure liquidatorie è fondamentale comprimere la fase di liquidazione dei beni. A questo fine, le procedure devono essere aperte tempestivamente e non a distanza di anni dalla cessazione dell’attività e le azioni civili devono essere trattate speditamente. Alcune disposizioni del nuovo Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza (Codice della Crisi, d.lgs. n. 14/2019), entrato pienamente in vigore dal luglio 2022, come quelle relative alle procedure di allerta e al numero minimo di esperimenti di vendita, vanno in questa direzione, sebbene sia necessario agire anche rispetto alla specializzazione dei tribunali e dei professionisti coinvolti. L’elevata durata delle procedure che si chiudono senza alcun riparto indica che in alcuni casi sarebbe necessaria una più attenta valutazione iniziale da parte del curatore delle effettive prospettive di recupero.

Per quanto riguarda il concordato preventivo, invece, è difficile valutare quali siano gli elementi più

significativi nel determinare il basso tasso di ammissione. Le modifiche introdotte dal nuovo Codice

della Crisi, che ridefinisce il limite fra concordato preventivo e liquidatorio, aumenta la flessibilità nella predisposizione delle proposte e introduce il piano di ristrutturazione omologato, potrebbero favorire le procedure che prevedono la continuità dell’attività d’impresa, sebbene possano generare un elevato tasso di contenzioso. Al contrario, i vincoli posti al concordato liquidatorio rischiano di ridurne significativamente l’utilizzo“.

E dunque in sintesi:

  • alla crisi d’impresa ed alla correlata incapacità di far fronte all’indebitamento segue quasi sempre il fallimento;
  • tale procedura è tutt’altro che soddisfacente per i creditori posto che nel 44,4% dei casi (ma sono il 51,7% al Centro e il 54,6% al Sud) non vi è alcun riparto;
  •  i fallimenti durano tanto: in media sette anni e un mese che si allungano a otto anni e nove mesi nelle procedure con riparto; anche per questo aspetto il Sud spicca in negativo nel senso che la durata media dei fallimenti che sono aperti in questa parte del Paese è sensibilmente più alta che altrove;
  • la liquidazione dei beni da sola impegna due terzi della durata della procedura;
  • sebbene siano possibili riparti parziali prima della conclusione della procedura, vi si ricorre solo nel 20% dei casi;
  • solo due domande di concordato preventivo su dieci sono approvate e omologate;
  • le procedure di concordato richiedono mediamente un anno e mezzo per la fase giudiziale e cinque anni e otto mesi per quella esecutiva.

Sono dati decisamente sconfortanti che hanno un riflesso diretto e negativo sulla correttezza dei rapporti economici tra i consociati e sulla propensione agli investimenti nel nostro Paese.

Ne viene fuori peraltro l’ennesima dimostrazione di una giustizia ad assetto asimmetrico su base territoriale: decentemente efficiente al Nord, scadente al Centro e al Sud.

I decisori politici dovrebbero sobbalzare a fronte di questi dati e mettersi immediatamente al lavoro per risolverli ma non accadrà: che share avrebbe un post che annuncia il rafforzamento delle ragioni dei creditori?