Domanda di insinuazione al passivo di crediti simulati e relativi riflessi penali (di Vincenzo Giglio)

Vicenda giudiziaria

Due imputati sono stati ritenuti responsabili in entrambi i giudizi di merito dei reati di presentazione di una domanda di insinuazione al passivo di una procedura fallimentare di crediti simulati e di peculato per induzione.

I loro difensori hanno fatto ricorso per cassazione.

Decisione della Corte di cassazione

Il ricorso è stato trattato dalla sesta sezione penale che lo ha definito con la sentenza n. 34517/2023, emessa in esito all’udienza del 5 luglio 2023.

Seguono i passaggi più significativi della decisione.

Fattispecie prevista dall’art. 232 L. F.

Il delitto di cui all’art. 232, comma 1, L.F., punisce “chiunque, fuori dei casi di concorso in bancarotta, anche per interposta persona, presenta domanda di ammissione al passivo del fallimento per un credito fraudolentemente simulato“.

La ratio dell’incriminazione è quella di tutelare l’interesse della massa dei creditori “a che i crediti insinuati siano veridici e reali, evitando che dalla proposizione di crediti simulati venga ad essere diminuita o annullata la possibilità di soddisfacimento dei crediti effettivi”.

Proprio l’utilizzazione della clausola di esclusione “fuori dei casi di concorso in bancarotta”, rende evidente che la fattispecie di cui all’art. 232, comma 1, L.F., risponde all’esigenza di apprestare un’efficace tutela penale contro le condotte fraudolente poste in essere da soggetti diversi dall’imprenditore fallito ovvero da chi rivesta una delle qualità indicate nell’art. 223, comma 1, legge fall., in pregiudizio della par condicio creditorum. Per l’integrazione di tale fattispecie di reato è, dunque, necessario presentare una domanda di ammissione al passivo fallimentare per un credito “fraudolentemente simulato”.

…Nozione di credito simulato

Si tratta, pertanto, di stabilire, innanzitutto, che cosa si debba intendere per “credito simulato”.

Al riguardo, tenuto altresì conto della ratio della disposizione in esame, deve ritenersi simulato ogni preteso diritto di credito, oggetto della domanda di ammissione al passivo da parte del soggetto attivo del reato, non corrispondente alla realtà giuridica da esso formalmente rappresentata e, quindi, in quanto tale, idoneo ad incidere negativamente sul regolare soddisfacimento delle ragioni del ceto creditorio in sede di riconoscimento dei rispettivi diritti di credito e di ripartizione dell’attivo fallimentare.

Rientrano, pertanto, in tale categoria, non solo tutti i casi di c.d. “simulazione assoluta”, in cui manchi del tutto il diritto di credito, ma anche i casi di c.d. “simulazione relativa”, in cui la falsa rappresentazione della realtà giuridica rappresentata dal diritto di credito vantato è solo parziale, ma decisiva per creare le condizioni (apparenti) per consentirne l’ammissione al passivo fallimentare. Come esemplificato in dottrina, sono questi i casi:

1) del credito effettivamente esistente, ma di cui non è titolare il soggetto attivo del reato, che, nel presentare la domanda di ammissione, si sostituisce al creditore effettivo, il quale ha, invece, rinunciato ad insinuare il proprio credito, senza cederlo;

2) della domanda di ammissione al passivo di un credito ordinario, che viene fatto apparire falsamente come privilegiato;

3) del credito che viene insinuato per un’entità quantitativamente superiore a quella effettiva;

4) della domanda di ammissione al passivo di un credito estinto, che venga presentato come ancora esigibile (in tal senso, altresì, Sez. 5, n. 7620 del 24/10/2016, dep. 2017, non massimata).

Non basta, tuttavia, che il credito sia simulato, occorrendo, come si è evidenziato, che si tratti di un credito “fraudolentemente simulato”. Occorre, in altri termini, per integrare l’elemento oggettivo del delitto in esame, un quid pluris rispetto alla semplice simulazione, che si traduce ontologicamente nella presentazione di una domanda di ammissione ideologicamente falsa nella misura in cui si fonda su di una pretesa creditoria non corrispondente alla realtà, vale a dire una condotta (come, ad esempio, la produzione di documentazione relativa al diritto di credito), che sia idonea a perfezionare l’inganno.

Truffa aggravata, non peculato per induzione

…Il curatore ha il possesso dei beni fallimentari

Deve essere preliminarmente sgomberato il campo dalla dedotta indisponibilità da parte del curatore fallimentare dei beni del fallimento medesimo, dovendosi invece affermare in capo al predetto il possesso giuridico di tali beni. È conclusione che consegue a quanto affermato da Sez. U n. 45936 del 26 settembre 2019, Mantova Petroli, secondo la quale sussiste la legittimazione del curatore del fallimento alla impugnazione dei provvedimenti dispositivi o confermativi del sequestro riconoscendogli la disponibilità autonoma e giuridicamente tutelata del bene. A tal proposito le S.U. hanno argomentato che “una disponibilità rispondente a queste caratteristiche è senza dubbio esistente in capo al curatore rispetto ai beni del fallimento. Come disposto dall’art. 42, comma 1, legge fall., «la sentenza che dichiara il fallimento priva dalla sua data il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento». La disponibilità di tali beni, da quel momento, si trasferisce dal fallito agli organi della procedura fallimentare. Di essi, il curatore è incaricato dell’amministrazione della massa attiva nella prospettiva della conservazione della stessa ai fini della tutela dell’interesse dei creditori, come indiscutibilmente affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 17749 del 17/12/2018, dep. 2019, Rv. 275453; Sez. 5, n. 48804 del 09/10/2013, Rv. 257553); ed in questa veste, l’art. 43 legge fall. gli attribuisce la rappresentanza in giudizio dei rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento (Sez. 2 civ., n. 11737 del 15/05/2013, Rv. 626734).

La giurisprudenza civilistica qualifica esplicitamente il curatore come detentore dei beni del fallimento (Sez. 2 civ., n. 16853 del 11/08/2005, Rv. 585055). E si tratta senz’altro di una detenzione qualificata, anche per il carattere pubblicistico della funzione per la quale la stessa è attribuita. La stessa sentenza Uniland ammette la natura pubblica della figura del curatore nella gestione dei beni del fallimento; e su questo aspetto è concorde con quanto già affermato nella sentenza Focarelli, peraltro richiamando consolidati principi civilistici (Sez. 1 civ., n. 2570 del 06/03/1995, Rv. 490929), in ordine alla qualificazione del curatore come organo che esercita una pubblica funzione nell’ambito dell’amministrazione della giustizia. La disponibilità dei beni del fallimento, di cui il curatore è titolare, è dunque riconosciuta dall’ordinamento e oggetto di una posizione giuridicamente autonoma nell’esercizio dei poteri di amministrazione e di rappresentanza in giudizio che al curatore sono per quanto detto conferiti. Ed è sulla base di queste considerazioni che la giurisprudenza di legittimità, del resto, ha espressamente ricondotto la posizione del curatore a quella della persona avente diritto alla restituzione dei beni sequestrati, ai fini della previsione di cui all’art. 322-bis cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 24160 del 16/05/2003, Rv. 227479).

…Conflitto giurisprudenziale

Esiste un orientamento di legittimità per il quale la responsabilità dell’autore mediato ex art. 48 cod. pen. si configura anche in relazione ai reati cosiddetti propri in cui la qualifica del soggetto attivo è presupposto o elemento costitutivo della fattispecie criminosa. Pertanto, risponde di peculato anche l’estraneo che, traendo in inganno il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, si appropri per tramite di questi di una cosa dagli stessi posseduta per ragioni del loro ufficio (Sez. 6, n. 4411 del 01/03/1996, Rv. 204775) ed affermando, nel caso di specie, la realizzazione degli elementi necessari alla fattispecie in ragione della indiscutibile qualifica di pubblico ufficiale del giudice delegato e del curatore fallimentare, così come della loro disponibilità del bene oggetto di appropriazione.

Secondo la sentenza impugnata, l’appropriazione è stata resa possibile dall’autorizzazione del giudice delegato e del curatore fallimentare a causa dell’induzione in errore operata dall’imputato, ovverossia con il mantenimento della domanda di ammissione al passivo e deposito degli assegni in originale, non residuando spazi di colpa in capo ai pubblici ufficiali, i quali hanno agito secondo l’ordinaria diligenza.

Invero – secondo la sentenza impugnata – è corrispondente all’id quod plerumque accidit la condotta del curatore fallimentare e del giudice delegato che autorizzano il pagamento dinanzi a titoli di credito originario, richiamando l’orientamento secondo il quale risponde di peculato mediante induzione in errore, ex artt. 48-314 cod. pen., e non di truffa aggravata, il pubblico ufficiale, preposto all’organo competente all’istruttoria della pratica ed alla predisposizione del provvedimento finale, che, inducendo in errore il consiglio di amministrazione di un ente sulla legittimità della delibera di spesa, ne ottiene l’approvazione con conseguente erogazione a taluni dipendenti di compensi di importo superiore a quello dovuto (Sez. 6, n. 10762 del 01/02/2018, Gambino, Rv. 272761).

Il collegio non condivide la qualificazione dell’accusa nell’ambito della fattispecie di cui agli artt. 48-314 cod. pen. in quanto non può ascriversi al pubblico ufficiale ingannato dalla condotta decettiva dell’extraneus il fatto tipico dell’appropriazione di cui all’art. 314 cod. pen., essendo l’extraneus autore diretto di una condotta truffaldina ai danni, nella specie, del fallimento in relazione al cui patrimonio i pubblici ufficiali (curatore e giudice delegato) – indotti in errore – compiono, secondo la prevista procedura, l’atto di disposizione patrimoniale in favore dell’agente consistente nella liquidazione dei crediti relativamente simulati insinuati al fallimento.

Di tale orientamento risulta una ampia disamina in Sez. 6, Gambino, che ha anche rilevato il contrasto in sede di legittimità e in dottrina in ordine alla applicabilità della fattispecie induttiva ex art. 48 cod. pen. al reato di peculato osservando che “in linea generale, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata, ai sensi dell’art. 61, n. 9, cod. pen., va individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, ricorrendo la prima figura quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi invece la seconda ipotesi quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri per appropriarsi del bene (così, tra le tante, Sez. 6, n. 15795 del 06/02/2014, Rv. 260154, nonché Sez. 6, n. 39010 del 10/04/2013, , Rv. 256595).

Occorre però esaminare – prosegue la sentenza – se, e in quale misura, ai fini della configurabilità dell’una o dell’altra fattispecie, rilevi la disposizione di cui all’art. 48 cod. pen., in forza della quale «se l’errore sul fatto che costituisce il reato è determinato dall’altrui inganno […] del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo»… Secondo un diffuso orientamento della giurisprudenza di legittimità, è configurabile il delitto di peculato, anche in applicazione dell’art. 48 cod. pen.., quando l’atto finale del procedimento di spesa è emesso da pubblici ufficiali indotti in errore dai pubblici agenti che si sono occupati di istruire la fase istruttoria (così Sez. 6, n. 39039 del 15/04/2013, , Rv. 257096, nonché, in precedenza, cfr.: Sez. 6, n. 2064 del 13/01/1984; Sez. 6, n. 139 del 08/11/1971, dep. 1972, , Rv. 119841; Sez. 6 n. 186 del 28/01/1970, Rv. 114961). Questo orientamento trova conferma in diverse pronunce, alcune recenti, altre risalenti, che, pur non richiamando esplicitamente la disposizione di cui all’art. 48 cod. pen., hanno ravvisato la configurabilità del delitto di peculato in relazione a procedure di spesa in cui il pubblico agente al quale era riferibile il provvedimento finale era in buona fede e le condotte fraudolente erano poste in essere dai funzionari istruttori della pratica.[…] Inoltre, la configurabilità del peculato ex art. 48 cod. pen. è stata ritenuta anche nei confronti di soggetto privo di qualifica pubblicistica che, traendo in inganno il pubblico agente, si appropri per tramite di questi di una cosa dal medesimo posseduta per ragioni di ufficio (cfr. Sez. 6, n. 4411 del 01/03/1996, Menia Bagatin, Rv. 204775).[…] Altro indirizzo interpretativo della giurisprudenza, pur senza evocare espressamente l’applicabilità o l’inapplicabilità della disposizione di cui all’art. 48 cod. pen. in relazione alla fattispecie di peculato, si pone dichiaratamente in contrasto con la soluzione accolta dalle pronunce sopra citate (cfr., specificamente, Sez. 6, n. 31243 del 04/04/2014, Currao, Rv. 260505). Secondo questo indirizzo, l’art. 314 cod. pen. «sanziona l’abuso del possesso, e colpisce in particolare il “tradimento” di fiducia del soggetto al quale l’ordinamento ha conferito la possibilità di disporre in autonomia della cosa affidatagli»; di conseguenza, se occorre acquisire atti dispositivi mediante «un’attività decettiva fondata sulla frode», emerge «per un verso come non vi sia stato pieno affidamento dell’amministrazione nei confronti dell’interessato, e per altro verso come manchi l’abuso del possesso da parte del funzionario infedele (sussistendo invece l’abuso della funzione)». In questa ipotesi, pertanto, ad avviso di questo orientamento, il reato configurabile è quello di truffa aggravata a norma dell’art. 61, n. 9, cod. pen.[…]. In dottrina, il tema dell’applicabilità dell’art. 48 cod. pen. alla fattispecie di peculato ha dato luogo ad opinioni diverse. Secondo un diffuso indirizzo, la disposizione appena citata, sebbene in linea generale deve ritenersi consentire l’applicazione della disciplina del reato cd. proprio nei confronti dell’estraneo anche quando iii soggetto dotato della qualifica soggettiva necessaria agisce senza colpevolezza, non opererebbe quando a costituire l’offesa all’interesse tutelato concorre un particolare disvalore di condotta, per la cui realizzazione è necessaria la dolosa partecipazione di un soggetto qualificato. Muovendo da questa premessa, alcuni Studiosi sostengono che in tutti i reati contro la pubblica amministrazione è necessaria la dolosa partecipazione del soggetto qualificato. Altri Autori, però, pur condividendo la premessa indicata, ritengono non integralmente condivisibile tale conclusione, e, con specifico riferimento al peculato, rilevano che la soluzione dipende dall’individuazione dell’interesse tutelato: sviluppando questa prospettiva, vi è chi afferma che la risposta sarà positiva o negativa a seconda che si ritenga che nel delitto previsto dall’art. 314 cod. pen. l’interesse protetto sia soltanto il patrimonio della pubblica amministrazione o anche il dovere di lealtà del pubblico ufficiale, e chi, ancor più nettamente, esclude l’esistenza di ostacoli alla combinazione tra le disposizioni di cui agli artt. 48 e 314 cod. pen. se detto interesse debba individuarsi nel patrimonio, «o anche nel patrimonio», della pubblica amministrazione. Altra opinione, invece, reputa che l’art. 48 cod. pen. avrebbe una specifica funzione incriminatrice e consentirebbe di affermare comunque la responsabilità del decipiens quando la mancanza di dolo in capo all’autore materiale della condotta illecita derivi dall’inganno”. All’esito della disamina, la sentenza Gambino ritiene “configurabile il delitto di peculato, anche a norma dell’art. 48 cod. pen., quando il denaro o l’altra cosa mobile è nella disponibilità giuridica concorrente di più pubblici ufficiali, ed uno di essi se ne appropria inducendo in errore gli altri, pure se questi ultimi siano i soggetti competenti ad emettere l’atto finale del procedimento… in quanto… nelle cd. “procedure complesse”, come appunto le ordinarie procedure di spesa pubblica, la disponibilità giuridica del bene – che costituisce, in alternativa al possesso, il presupposto della condotta rilevante a norma dell’art. 314 cod. pen. – è frazionata dall’ordinamento giuridico tra più organi, e, quindi, tra più persone fisiche. Questo frazionamento non può ritenersi escludere la configurabilità del delitto di peculato, poiché l’art. 314 cod. pen. indica come presupposto della condotta illecita «il possesso o comunque la disponibilità» del bene, ma non anche l’esclusività di tale possesso o di tale disponibilità», cosicché, conclude, il pubblico agente che “co-detiene” la disponibilità giuridica della cosa mobile, anche quando induce in errore gli altri pubblici ufficiali con concorrenza competente sulla stessa, al fine di appropriarsene, abusa comunque della propria già esistente disponibilità in ordine al bene”.

…Indirizzo adottato dal collegio

Ritiene il collegio che il principio espresso dalla risalente Sez. 6, Menia Bagatin non tiene conto della successiva riflessione giurisprudenziale né declina il principio espresso secondo la concreta fattispecie in esame, mentre quello espresso da Sez. 6, Gambino, pure posto a base della sentenza impugnata, non costituisce una attualizzazione della predetta decisione e non pertiene alla fattispecie oggetto del presente procedimento facendo riferimento alla compartecipazione di un pubblico ufficiale alla procedura a seguito della quale è compiuto l’illecito atto dispositivo richiamando un compossesso del bene da parte dello stesso soggetto inducente in errore colui che pone in essere l’atto dispositivo. Del resto, ritiene il collegio, non è condivisibile l’argomentare della richiamata decisione quando correla la fattispecie induttiva al compossesso da parte del soggetto pubblico inducente che, di per sé, fonda la condotta appropriativa, non necessitando il richiamo alla fattispecie di cui all’art. 48 cod. pen.

In ogni caso, diversa è la fattispecie qui in esame in cui il soggetto agente consegue il bene soltanto per la condotta decettiva posta in essere nei confronti degli organi del fallimento. Al soggetto agente, in questo caso, non può ascriversi alcun compossesso giuridico dei beni del fallimento, né diretto né mediato, secondo il principio di diritto già affermato da Sez. 6, Currao, secondo la quale è configurabile il delitto di truffa, aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 9, cod. pen., e non quello di peculato quando l’atto che in concreto produce l’effetto di appropriazione si inserisce in una procedura articolata„ nella quale più soggetti sono chiamati ad intervenire e l’agente infedele, per ottenere il trasferimento della cosa nella sua materiale e personale disponibilità, deve ricorrere ad una condotta decettiva che gli procuri il compimento di atti di disposizione aventi natura costitutiva la cui adozione compete a terzi. A tal proposito la decisione ha ricordato che “la differenza di fondo fra i due illeciti risiede nel fatto che nel delitto di peculato il possesso e la disponibilità del denaro per determinati fini istituzionali è un antecedente della condotta incriminata, mentre nella truffa l’impossessamento della cosa è l’effetto della condotta illecita. È al rapporto tra possesso, da una parte, ed artifizi e raggiri, dall’altra, che deve aversi riguardo, nel senso che, qualora questi ultimi siano finalizzati a mascherare l’illecita appropriazione da parte dell’agente del denaro o della res di cui già aveva legittimamente la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ricorrerà lo schema del peculato; qualora, invece, la condotta fraudolenta sia posta in essere proprio per conseguire il possesso del denaro o della cosa mobile altrui, sarà integrato il paradigma della truffa aggravata. A differenziare le due figure criminose, conclusivamente, non rileva tanto la precedenza cronologica o la contestualità della frode rispetto alla condotta appropriativa, bensì il modo col quale il funzionario infedele acquista il possesso del denaro o del bene costituente l’oggetto materiale del reato: il momento consumativo della truffa coincide con il conseguimento del possesso a cagione dell’inganno e quale diretta conseguenza di esso, il che significa appropriazione immediata e definitiva del denaro o della res a vantaggio personale dell’agente; il peculato presuppone il legittimo possesso (disponibilità materiale o giuridica), per ragione dell’ufficio o del servizio, del denaro o della res, che l’agente successivamente fa propri, condotta quest’ultima che, anche se eventualmente caratterizzata da aspetti di fraudolenza, non esclude la configurabilità del delitto di cui all’art. 314 c.p.,, fatte salve le ulteriori ipotesi di reato eventualmente concorrenti” (Sez. 6, n. 5447 del 04/11/2009, Rv. 246070; nello stesso senso, in seguito, Sez. 6, n. 39010 del 10/04/2013, Rv. 256595; Sez. 6, n. 41599 del 17/07/2013 Rv. 256867; in precedenza, Sez. 6, n. 35852 del 06/05/2008, Rv. 241186; Sez. 6, n. 6753 del 04/06/1997, Rv. 211009; Sez. 6, n. 1675 del 28/11/1995, Rv. 204772; Sez. 6, n. 11902 del 11/05/1994, Rv. 200200; Sez. 6, n. 2439 del 19/09/1990, Rv. 186548; Sez. 6, n. 3039 del 22/03/1989, Rv. 183538)”.

Si pone nell’alveo di tale orientamento il principio di recente affermato secondo il quale non integra il delitto di peculato la condotta del consigliere regionale che, senza avere la disponibilità di fondi per il funzionamento del gruppo consiliare, ottenga rimborsi gravanti sul fondo del gruppo di appartenenza per spese non rimborsabili, potendo configurare il reato ex art. 314 cod. pen. solo la condotta appropriativa di denaro di cui il pubblico ufficiale abbia la disponibilità diretta (Sez. 6, n. 40595 dei 02/03/2021, Bernardini Manes, Rv. 282742 – 01) che ha inteso ribadire “la interpretazione strettamente letterale dell’art. 314 cod. pen.: la norma non riguarda qualsiasi forma di appropriazione realizzata dal pubblico ufficiale, ma solo quella che abbia ad oggetto cose che possano definirsi quali possedute dall’agente. Tale possesso/disponibilità è un presupposto necessario per qualificare come peculato l’appropriazione che, di per sé sola, è un elemento equivoco poiché caratterizza anche altri delitti», affermandosi che la “disponibilità” rilevante ai fini del peculato spetta soltanto a chi ha un «potere di firma» e non si estende a chi si limita ad inserire nel procedimento «dati» necessari per giustificare il trasferimento del denaro stesso”.

Il principio affermato dall’orientamento esposto con riferimento alla qualità pubblicistica del soggetto agente, a maggior ragione, trova applicazione quando – come nel caso all’esame del collegio – questi, estraneo alla funzione pubblicistica, solo con la frode entra in possesso del bene altrui, di cui ha la disponibilità il pubblico ufficiale in ragione del suo ufficio. La fattispecie di cui all’art. 48 cod. pen., invero, si ricollega a quella precedente dell’art. 47 cod. pen. che disciplina l’errore di fatto che, secondo un orientamento consolidato, esime dalla punibilità nel caso in cui cade su un elemento materiale del reato, consistendo in una difettosa percezione o in una difettosa ricognizione della percezione che alteri il presupposto del processo volitivo, indirizzandolo verso una condotta viziata alla base (Sez. 6, n.. 24605 del 03/04/2003, Mazzarella, Rv. 225569 – 01).

Secondo l’art. 48 cod. pen. «se l’errore sul fatto costituente reato è determinato dall’altrui inganno, del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterla», ponendosi sul piano dell’elemento soggettivo e non su quello oggettivo, non potendosi in ragione di tale previsione trasferire in capo al decipiens la funzione pubblicistica e invenire la correlata appropriazione, che necessariamente presuppone un abuso della funzione, nella specie insussistente. Pertanto, commette il reato di truffa colui che, mediante artifici e raggiri, induce in errore il curatore fallimentare ed il giudice delegato al fallimento in ordine al trasferimento del bene di cui questi hanno la disponibilità in ragione del proprio ufficio, procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto.

Concorso formale, non apparente, tra le due fattispecie contestate

Uno dei ricorrenti ha dedotto il bis in idem tra le condotte di cui ai capi a e c, da un lato, e quelle di cui ai capi b e d, dall’altro, invocando la medesimezza del fatto materiale e di un’unica condotta nelle rispettive fattispecie. È noto che il bis in idem sostanziale concerne le ipotesi di qualificazione normativa multipla di un medesimo fatto, e, mediante il criterio regolativo della specialità (artt. 15 e 84 c.p.), fonda la disciplina del concorso apparente di norme, vietando che uno stesso fatto sia attribuito giuridicamente due volte alla stessa persona.

Con Sez. U n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231799 – 01 è stato autorevolmente affermato che, ai fini della preclusione connessa al principio “ne bis in idem”, l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona.

Nella specie, mentre la fattispecie di cui all’art. 232, comma 1, L.F. individua un reato di pericolo arrestandosi il fatto tipico perseguito alla formulazione della domanda di ammissione al fallimento, quella di truffa individua un reato di danno che contempla l’ulteriore evento del conseguimento del profitto da parte dell’agente con corrispondente danno per la procedura fallimentare.

Cosicché alcun rapporto di specialità può ravvisarsi tra le due fattispecie di reato tale da giustificare l’applicazione dell’art. 15 cod. pen. dovendosi per tali ragioni dissentire con l’opposta conclusione di Sez. 5, n. 25836 del 22/07/2020, R. 279467) che ha ascritto al reato fallimentare anche il conseguimento del credito insinuato in base non già alla comparazione astratta delle fattispecie ma considerando la concreta imputazione elevata nel caso.