Il lonfo, il lettore che s’accazza e la Cassazione (di Vincenzo Giglio)

Fosco Maraini (Firenze, 1912-2004) è stato un’icona dell’eclettismo e della curiosità intellettuale: nella sua lunga e intensa vita ha coltivato l’antropologia, l’orientalismo, l’alpinismo, la fotografia, la scrittura e la poesia.

Senza volere far torto agli altri ambiti della sua attività, mi limito qui al Maraini poeta e teorico della poesia.

La sua produzione fu all’insegna di una tecnica che Maraini stesso (nell’introduzione all’opera La gnosi delle Fànfole) definì “metasemantica”, spiegandola così: “Il linguaggio comune, salvo rari casi, mira ai significati univoci, puntuali, a centratura precisa. Nel linguaggio metasemantico invece le parole non infilano le cose come frecce, ma le sfiorano come piume, o colpi di brezza, o raggi di sole, dando luogo a molteplici diffrazioni, a richiami armonici, a cromatismi polivalenti, a fenomeni di fecondazione secondaria, a improvvise moltiplicazioni catalitiche nei duomi del pensiero, dei moti più segreti […] Nella poesia metasemantica il lettore deve contribuire con un massiccio intervento personale. La crasi non è data dall’incontro con un oggetto, bensì, piuttosto, dal tuffo in un evento. Il lettore non diventa solo azionista del poetificio, ma entra subito a far parte del consiglio di gestione e deve lui, anche, provvedere alla produzione del brivido lirico. L’autore più che scrivere, propone. Se è riuscito nel suo intento, può dire di aver offerto un trampolino, nulla più. Quanto mi divertirei“.

Maraini non si limitò a teorizzare.

Dal suo “poetificio” personale tirò fuori la composizione Il lonfo, ripresa e resa celebre da Gigi Proietti nei panni di uno stralunato poeta ermetico (qui il link ad una delle tante versioni).

Ecco il testo integrale:

Il lonfo non vaterca né gluisce

e molto raramente barigatta,

ma quando soffia il bego a bisce bisce

sdilenca un poco e gnagio s’archipatta.

È frusco il Lonfo! È pieno di lupigna

arrafferia malversa e sofolenta!

Se cionfi ti sbiduglia e ti arrupigna

se lugri ti botalla e ti criventa.

Eppure il vecchio Lonfo ammargelluto

che bete e zugghia e fonca nei trombazzi

fa lègica busìa, fa gisbuto;

e quasi quasi in segno di sberdazzi

gli affarferesti un gniffo. Ma lui zuto

t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi“.

Ora che è chiaro cosa intendesse Maraini per polisemantica, l’appartenenza di TF all’ambito giuridico mi impone (a malincuore, per la verità) di ricondurre questa tecnica a ciò che avviene nel diritto.

Devo cercare – se c’è – qualcosa che contenga molteplici diffrazioni, richiami armonici, cromatismi polivalenti, fenomeni di fecondazione secondaria, improvvise moltiplicazioni catalitiche nei duomi del pensiero, dei moti più segreti.

Mi viene istintivo fare la ricerca tra le decisioni della Cassazione: lì stanno i saggi, i sacerdoti del diritto italiano, i maestri del linguaggio tecnico, lì dovrei trovare almeno qualcuna delle condizioni descritte da Maraini.

Una ricerca che pretende di essere seria dovrebbe essere vasta, comprendere molte cose, consentire confronti e comparazioni.

Ma qui si parla di poesia e polisemantica, di suggestioni e significati e allora può bastare un solo esempio purché calzante.

Scelgo un’ordinanza della prima sezione penale del 2020, quella con cui è stato chiesto l’intervento delle Sezioni unite perché illuminassero l’Italia e il mondo sui criteri di computo dello spazio minimo disponibile che l’amministrazione penitenziaria deve assicurare a ogni detenuto se vuole evitare di essere accusata di trattamenti inumani e degradanti.

Ecco il quesito:

se esso [lo spazio minimo, NDR]debba essere calcolato al netto della superficie occupata da mobili e strutture tendenzialmente fisse ovvero includendo gli arredi necessari allo svolgimento delle attività quotidiane di vita; se assuma rilievo, in particolare, nella determinazione dello spazio minimo disponibile, quello occupato dal letto o dai letti nelle camere a più posti, indipendentemente dalla struttura del letto “a castello” o “singola”, ovvero se debba essere detratto, per il suo maggiore ingombro e minore fruibilità, solo il letto a castello; se, infine, nel caso di accertata violazione dello spazio minimo disponibile (3 mq), secondo il corretto criterio di calcolo, da determinarsi al lordo o al netto dei mobili, possa comunque escludersi la violazione dell’art. 3 della CEDU nel concorso di altre condizioni, come individuate dalla stessa Corte EDU (breve durata della detenzione, sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella con lo svolgimento di adeguate attività, dignitose condizioni carcerarie) ovvero se tali fattori compensativi incidano solo quando lo spazio pro capite sia compreso tra i 3 e i 4 mq“.

Un fiume di parole per chiedere se i tre metri quadri canonici debbano essere calcolati al netto o al lordo del letto (e da qui parte un’appassionante disputa tra letto normale e letto a castello) e se, ancora, può bastare una superficie inferiore a tre metri se il detenuto gode di fattori compensativi non meglio precisati.

A me pare che queste parole possano essere pensate solo da un vecchio lonfo ammargelluto “che bete e zugghia e fonca nei trombazzi, fa lègica busìa, fa gisbuto“.

E che dovrebbe pensarne chi le legge e ne subisce gli effetti?

È sempre Maraini a suggerirlo: “e quasi quasi in segno di sberdazzi gli affarferesti un gniffo. Ma lui zuto t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi“.

Ecco, giusto: il lettore accazza chi ha scritto e, aggiungerei, si accazza anche in proprio.