Lettura di dichiarazioni predibattimentali e previe ricerche del teste (di Vincenzo Giglio)

Cass. pen., Sez. 2^, sentenza n. 33959/2023, udienza del 18 luglio 2023, chiarisce che in tema di lettura di dichiarazioni predibattimentali ex art. 512 cod. proc. pen, non assume rilevanza, ai fini della completezza degli adempimenti prescritti per assicurare la presenza in udienza del teste, la mancata effettuazione di ricerche tramite il recapito telefonico dallo stesso fornito, in assenza di elementi che ne suffraghino l’effettivo utilizzo nel periodo di svolgimento delle ricerche.

Il principio affermato dal collegio della seconda sezione penale è espressione di indirizzi interpretativi ben presenti e radicati nella giurisprudenza di legittimità.

Non è quindi la sua ortodossia al diritto vivente che si può censurare.

Si può e si deve invece discutere della sua coerenza all’idea costituzionale del processo, quale consacrata nell’art. 111 Cost.

Si afferma, come si è visto, che tra gli adempimenti dovuti allorché si debba assicurare la presenza di un teste in udienza non è compresa la sua ricerca tramite il recapito telefonico fornito dall’interessato.

Si aggiunge che la ricerca dovrebbe essere svolta solo se fossero già acquisiti elementi che dimostrino l’uso effettivo dell’utenza nel periodo della ricerca medesima.

Ne viene fuori uno strano criterio: la ricerca via telefono (cioè attraverso il mezzo di comunicazione più diffuso al mondo) non si fa se prima qualcun altro non dimostra che il ricercato lo usa.

E chi sarebbe poi quel qualcun altro? Dovrebbe essere – si immagina – colui che ha chiesto e ottenuto l’ammissione come prova della testimonianza. Nulla quaestio per il PM che può rivolgersi alla polizia giudiziaria. Ma se fosse invece la difesa, quali strumenti avrebbe per dimostrare che l’utenza telefonica del ricercato è attiva? Dovrebbe rivolgersi al giudice ma, se fosse di fronte a un giudice ligio alla giurisprudenza di legittimità, questi gli direbbe che non è compito suo.

Non se uscirebbe dunque e così facendo, peraltro, non si terrebbe conto del consistente indirizzo giurisprudenziale della Corte europea dei diritti umani che pretende un’interpretazione restrittiva e rigorosa di qualsiasi norma ostacoli il diritto dell’accusato di fare interrogare chi lo accusi, a pena di violazione dell’art. 6, CEDU.