“Poisoned tree” c/o “male captum bene retentum”: acquisizione viziata dei numeri di utenze poi intercettate (Riccardo Radi)

La polizia giudiziaria acquisisce in maniera “poco ortodossa” i numeri delle utenze telefoniche poi intercettate: il quesito è se ciò determina l’inutilizzabilità delle intercettazioni.

Un caso che negli ordinamenti di common law sarebbe assoggettato alla dottrina del frutto dell’albero avvelenato (fruit of the poisoned tree) sul presupposto che l’illegittima acquisizione iniziale rende illegittimo l’uso di tutto ciò che è stato acquisito in modo viziato.

Noi però siamo italiani (quindi più intelligenti), apparteniamo al civil law (quindi più civili) e ci piacciono di più i latinetti (quindi più colti).

Al frutto dell’albero avvelenato contrapponiamo perciò la mirabolante teoria del “male captum, bene retentum” che, tradotto in romanesco, potrebbe suonare così: “ma che ce frega, ma che ce importa, se l’oste al vino ci ha messo l’acqua”.

La cassazione sezione 2 con la sentenza numero 24492/2023 ha stabilito che in tema di intercettazioni telefoniche, l’eventuale illegittimità delle operazioni di acquisizione delle utenze telefoniche contattate dai cellulari degli indagati, in assenza di una espressa previsione di legge, non determina l’inutilizzabilità delle successive attività di captazione effettuate in base ad autonomi decreti di intercettazione privi di qualsiasi vizio, non sussistendo un principio generale di invalidità derivata riferibile anche al vizio dell’inutilizzabilità.

Fatto

La difesa ricorre in cassazione e deduce che avendo la corte di merito utilizzato ai fini del giudizio di responsabilità i risultati di attività intercettiva disposta in forza di due decreti, disposti in violazione degli artt. 55, 384, 352, 244 cod. proc. pen., 13, 15, 117 Cost., 8 CEDU e difetto di motivazione della corte di appello nella parte in cui era stata esclusa l’illegalità dell’attività di intercettazione; al proposito si lamentava che le utenze sulle quali erano state disposte le intercettazioni in forza dei suddetti decreti erano state carpite dalla polizia giudiziaria con modalità irrituale ed illegale.

Ed invero, in occasione del controllo effettuato nei riguardi di D.M ed altri soggetti, la P.G. ricavava dalla consultazione del telefono cellulare dello stesso i numeri telefonici poi sottoposti ad intercettazione senza però che detta attività, consistita in una perquisizione o comunque ispezione, fosse stata espletata nel rispetto delle garanzie previste dalla Costituzione e dal codice di procedura penale.

Analogamente, il secondo decreto, aveva avuto ad oggetto l’intercettazione di un’utenza riferibile a D. A. identificata dalla polizia giudiziaria in maniera del tutto riservata con violazione di analoghi principi e delle norme stabilite in tema di attività ispettiva o di perquisizione, subordinate all’emissione di un decreto motivato dal pubblico ministero nel caso di specie assente.

Aveva errato il primo giudice nel ritenere applicabili al caso di specie i principi stabiliti dalla sentenza Lanzetta della Corte di cassazione e l’attività compiuta, consistita nell’estrapolazione del numero di utenza cellulare, comportando una intrusione nella sfera privata anche alla luce di quanto disposto dall’art. 8 CEDU, doveva ritenersi garantita dal principio di legalità e quindi subordinata all’emissione di un decreto da parte del PM altrimenti risultando posta in essere in violazione di norme costituzionali a presidio di diritti fondamentali.

Aveva ancora errato la Corte di appello nel ritenere applicabile l’art. 348 cod. proc. pen. che non può legittimare un’attività illegale.

L’illegittimità del procedimento acquisitivo delle utenze inficiava i successivi decreti autorizzativi delle intercettazioni disposti sull’utenza del D.M. ed utilizzate per affermare la responsabilità di D.M. né poteva ritenersi che la disciplina dettata dall’art. 191 cod. proc. Pen. limitasse tassativamente l’inutilizzabilità alle sole prove acquisite in violazione delle previsioni del codice di procedura penale poiché, la prova ottenuta attraverso metodi in violazione dei diritti dell’individuo, ha natura essenzialmente illecita.

L’intera sequenza che portava all’elemento probatorio doveva considerarsi invalida e l’argomentazione della sentenza secondo cui l’attività non poteva qualificarsi come perquisizione bensì come attività urgente ed innominata ex art. 348 cod. proc. pen., doveva ritenersi manifestamente irragionevole posto che l’attività non era consistita nell’assicurazione di una fonte di prova bensì nell’estrapolazione di dati che avrebbero consentito la prosecuzione del monitoraggio captativo.

Decisione

La doglianza non è fondata sotto diversi profili; invero va in primo luogo rammentato, come anche sottolineato dalla corte di appello nell’impugnata pronuncia, che proprio sul punto la cassazione ha già affermato che l’acquisizione da parte della polizia giudiziaria del numero di utenza telefonica mobile attraverso, l’esame, all’insaputa dell’indagato, dell’apparecchio cellulare a lui in uso rientra tra gli atti urgenti e “innominati” demandati agli organi di polizia giudiziaria, ai sensi degli artt. 55 e 348 cod. proc. ben., e, come tale, non è soggetta ad una preventiva autorizzazione dell’Autorità giudiziaria e neppure alla necessaria documentazione prevista dall’art. 357 cod. proc. peri., che non fa riferimento alle attività ed operazioni di cui all’art. 348 cod. proc. peri (Sez. 6, n. 20247 del 27/03/2018, Rv. 273273 – 01).

In motivazione, la sentenza predetta, emessa proprio in questo procedimento nella fase cautelare, ampiamente motiva detta scelta affermando espressamente che:” in primo luogo, va posto nel dovuto rilievo che l’esame di un apparato telefonico cellulare per estrarne, all’insaputa del titolare, il relativo numero telefonico non è qualificabile né come perquisizione ex art. 352 cod. proc. pen., dato che la Polizia giudiziaria non è evidentemente andata alla ricerca del corpo del reato o di cose ad esso pertinenti, né come ispezione di cose, posto che l’utenza non è qualificabile come traccia o altro effetto materiale del reato, come previsto dall’art. 244, comma 1 e 246 cod. proc. pen.

Ancora, l’ottenimento, con le modalità di cui si è detto, dell’utenza telefonica cellulare non è in alcun modo assimilabile alla acquisizione dei dati del traffico telefonico per la quale, come affermato da Cass. Sez. Unite 13/7/1998 n. 21, Gallieri, Rv 211197, vi è la necessità della previa autorizzazione della Autorità giudiziaria dato che non si è trattato qui di accertare i contatti che detta utenza avrebbe intrattenuto con altre utenze ma solo, lo si ripete, di individuare il mero numero di utenza telefonica dell’apparecchio esaminato, così che è del tutto estraneo al tema in trattazione quello proposto da diversi ricorrenti in merito ad affermate violazioni, anche convenzionali, del diritto alla riservatezza… Si tratta allora, evidentemente, di quelle attività urgenti ed “innominate” di Polizia giudiziaria di cui all’art. 55 e 348 cod. proc. pen. finalizzate alla assicurazione delle fonti di prova mediante la raccolta di ogni elementi utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole, come riconosciuto del resto dalla giurisprudenza di legittimità che ha avuto modo di chiarire, per un verso, che l’acquisizione di un cellulare e dei dati segnalati sul display si collocano tra gli atti urgenti demandati alla Polizia giudiziaria e, come tali, non subordinati a preventiva autorizzazione della Autorità giudiziaria (Cass. Sez. 4, 8/5/2003 n. 3435, Rv. 230060) e, dall’altro, che anche la ulteriore rilevazione del numero di una utenza contattata, conservato nella memoria di un apparecchio di telefonia mobile, è una operazione non assimilabile all’acquisizione dei dati di traffico conservati presso il gestore dei servizi telefonici e non necessita, quindi, del decreto di autorizzazione dell’autorità giudiziaria, potendo conseguire ad una mera attività di ispezione del telefono da parte della polizia giudiziaria (così, Cass. Sez., 1, 13/3/2013, Rv 255973).

Diretta conseguenza della qualificazione delle modalità con le quali la Polizia giudiziaria, mediante esame dell’apparecchio cellulare del D.M., è venuta in possesso del relativo numero telefonico come attività ex art. 348 cod. proc. pen. è poi quella per la quale l’attività stessa non era soggetta a necessaria documentazione ex art. 357 cod. proc. pen., dal momento che la norma processuale da ultimo citata non fa riferimento alle attività ed operazioni di cui al richiamato art. 348 cod. proc. pen., il tutto poi a prescindere dalla osservazione, comunque decisiva, che l’omessa documentazione di attività documentabili ex art. 357 cod. proc. pen. non. determina alcuna nullità o inutilizzabilità (così Cass. Sez. 5 12/12/2015 n. 25799, Rv 267260).

In definitiva, quindi, l’acquisizione da parte della Polizia giudiziaria, con le modalità sopra indicate, del numero di utenza cellulare del D.M. è avvenuto del tutto legittimamente e altrettanto legittimamente, quindi, lo stesso è stato sottoposto ad intercettazione urgente da parte del Pm così come del tutto legittimi sono anche i successivi decreti emessi sempre in via di urgenza dal Pm per l’intercettazione delle utenze che risultavano aver intrattenuto contatti telefonici con la prima utenza del D.M.”.

Tale conclusione, non appare isolata nel panorama giurisprudenziale della Corte di legittimità dovendosi richiamare altri precedenti conformi sul punto e secondo cui l’utilizzazione dei dati segnalati sul display di un apparecchio di telefonia mobile non necessita del decreto di autorizzazione del g.i.p. in quanto tali elementi non sono assimilabili al contenuto di conversazioni o comunicazioni telefoniche, la cui utilizzazione è disciplinata dagli artt. 266 e ss. cod. proc. pen.; l’acquisizione del cellulare, infatti, rientra, trattandosi di oggetto da cui trarre tracce o elementi di prova, tra gli atti urgenti demandati agli organi di polizia giudiziaria, ai sensi degli artt. 55 e 348 cod. proc. pen., e, come tale, non è subordinata alla preventiva autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria (Sez. 4, n. 3435 del 08/05/2003, Rv. 230060 – 01).

Tuttavia, anche a volere ammettere che il controllo eseguito sui cellulari del C. e del M. in occasione della loro convocazione presso gli uffici di polizia fu illegittimo perché disposto in contrasto con il combinato disposto delle norme in precedenza esaminate, da ciò non deriverebbe comunque la conseguenza della illegittimità dei successivi decreti autorizzativi e la inutilizzabilità delle intercettazioni poi disposte, invocata dai difensori ricorrenti.

Al proposito deve essere ricordato come il principio della invalidità derivata, ricavato dalla teoria del common law dei frutti dell’albero avvelenato e secondo cui se la fonte (l’albero) della prova o la prova stessa è viziata, allora ogni cosa ottenuta (il frutto) tramite essa è a sua volta viziata, sia estraneo all’ordinamento italiano, come già ripetutamente affermato in diversi interventi sia della cassazione che del giudice delle leggi chiamato ripetutamente a pronunciarsi sul punto.

In particolare si è affermato in un primo momento che il principio secondo cui la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi, che dipendono da quello dichiarato nullo, non trova applicazione in materia di inutilizzabilità, riguardando quest’ultima solo le prove illegittimamente acquisite e non altre la cui acquisizione sia avvenuta in modo autonomo e nelle forme consentite (Sez. 2, n. 44877 del 29/11/2011, Rv. 251361 01); il principio risulta ripetutamente ribadito da altre successive pronunce secondo cui il principio dell’invalidità derivata previsto dall’art. 185 cod. proc. pen. non è applicabile con riferimento alla inutilizzabilità, sicché la decisione che si basi su prova vietata non è di per sé invalida, potendo al più ritenersi nulla per difetto di motivazione, qualora non sussistano prove, ulteriori e diverse da quelle inutilizzabili, idonee a giustificarla (Sez. 6, n. 5457 del 12/09/2018, Rv. 275029 – 02).

A fronte di tale ricostruzione del giudice di legittimità anche nella elaborazione della Corte costituzionale si è pervenuti alla medesima conclusione; innanzitutto con la pronuncia n. 219 del 2019 sono state dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 191 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), la cui violazione i ricorsi richiamavano. In tale pronuncia il giudice delle leggi ha espressamente preso posizione sul tema della inutilizzabilità derivata affermando che: “è lo stesso sistema normativo ad avallare la conclusione secondo la quale, per la inutilizzabilità che scaturisce dalla violazione di un divieto probatorio, non possa trovare applicazione un principio di “inutilizzabilità derivata”, sulla falsariga di quanto è previsto invece, nel campo delle nullità, dall’art. 185, comma 1, cod. proc. pen., a norma del quale «[la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo».

Derivando il divieto probatorio e la conseguente “sanzione” della inutilizzabilità da una espressa previsione della legge, qualsiasi “estensione” di tale regime ad atti diversi da quelli cui si riferisce il divieto non potrebbe che essere frutto di una, altrettanto espressa, previsione legislativa….”; si afferma ancora nella stessa sentenza che:” La tesi del giudice rimettente, secondo la quale la illegittimità della perquisizione dovrebbe condurre – come soluzione costituzionalmente imposta – alla “inutilizzabilità” del sequestro del corpo del reato, secondo la nota teoria dei “frutti dell’albero avvelenato”, rinverrebbe, d’altra parte, la propria ragion d’essere nella circostanza che l’art. 191 cod. proc. peri. svolgerebbe una funzione di tipo “politico costituzionale”, in quanto mirerebbe ad assicurare una effettiva tutela ai valori costituzionali coinvolti, disincentivando le loro violazioni finalizzate all’acquisizione della prova attraverso lo strumento della inutilizzabilità dei relativi risultati. Sarebbe proprio grazie a tale divieto di utilizzabilità – sostiene il giudice rimettente – che si «scoraggeranno e disincentiveranno quelle pratiche di acquisizione della prova con modalità illegali (e talora francamente illecite), che violano i diritti costituzionali al cui presidio sono appunto posti i divieti rinvenibili nel codice di rito e nelle norme speciali».

In questa prospettiva, la stessa ratio essendi delle censure – volte a rendere automaticamente “contaminata” la utilizzabilità del sequestro, ove questo derivi da una perquisizione in ipotesi eseguita fuori dai casi consentiti dalla legge – finisce ineluttabilmente per coinvolgere scelte di “politica processuale” che la stessa Costituzione riserva al legislatore”.

La suddetta interpretazione circa l’impossibilità di ricavare il principio della inutilizzabilità derivata in via interpretativa, come pure vorrebbero i ricorsi avanzati nell’odierno procedimento che prospettano l’inutilizzabilità delle intercettazioni legittimamente disposte sulle utenze solo per effetto della illegittima acquisizione dei numeri sulle quali venivano poi eseguite a seguito di quell’accesso agli apparecchi di C. e M., risulta ribadita dalle successive pronunce della stessa Corte costituzionale intervenuta sempre su analoghi punti.

In particolare la sentenza n. 252 del 2020, richiamando espressamente la pronuncia n. 219 dell’anno precedente già esaminata, fissa una chiara interpretazione della categoria e dello spazio operativo delle inutilizzabilità: ” distinguendo nettamente tale fenomeno dai profili di inefficacia conseguenti alla violazione di una regola sancita a pena di nullità dell’atto. Anche tale vizio resta, peraltro, soggetto – come le nullità – ai paradigmi della tassatività e della legalità. Essendo il diritto alla prova un connotato essenziale del processo penale, in quanto componente del giusto processo, è solo la legge a stabilire – con norme di stretta interpretazione, in ragione della loro natura eccezionale – quali siano e come si atteggino i divieti probatori, «in funzione di scelte di “politica processuale” che soltanto il legislatore è abilitato, nei limiti della ragionevolezza, ad esercitare».

Di qui l’impossibilità – ripetutamente riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità -di riferire all’inutilizzabilità il regime del “vizio derivato”, che l’art. 185, comma 1, cod. proc. pen. contempla solo nel campo delle nullità”.

E la stessa pronuncia aggiungeva che: “Lo stesso assunto del giudice a quo – evocativo della cosiddetta teoria dei “frutti dell’albero avvelenato” – secondo il quale la soluzione proposta sarebbe stata necessaria al fine di disincentivare le pratiche di acquisizione delle prove con modalità lesive dei diritti fondamentali (rendendole “non paganti”), rivelava come le questioni coinvolgessero scelte di politica processuale riservate al legislatore.

L’obiettivo di disincentivare possibili abusi risultava, peraltro, perseguito dall’ordinamento vigente tramite la persecuzione diretta, in sede disciplinare o, se del caso, anche penale, della condotta “abusiva” della polizia giudiziaria, come del resto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità“.

Chiamata nuovamente a pronunciarsi sul tema in relazione ad alcuni profili solo parzialmente differenti prospettati dal giudice remittente, con la recente pronuncia n. 247/2022 la Corte costituzionale ha confermato il precedente orientamento; ed a fronte delle nuove prospettazioni circa la sussistenza all’interno dell’ordinamento di fattispecie di inutilizzabilità derivata disciplinate dall’art. 191 comma 2 bis e dall’art. 103 cod. proc. pen. la corte, in tale ultima pronuncia, ha osservato:” come, “proprio in ragione delle peculiarità “funzionali” che caratterizzano il sistema delle inutilizzabilità e dei connessi divieti probatori, in ragione dei valori che mirano a preservare, esista una gamma “differenziata” di regole di esclusione, alle quali corrisponde un altrettanto differenziato livello di lesione dei beni che quelle regole intendono 1tutelare: il tutto, come è ovvio, in funzione .di scelte di “politica processuale” che soltanto il legislatore è abilitato, nei limiti della ragionevolezza, ad esercitare” (sentenza n. 219 del 2019).

L’osservazione è riferibile anche alla fattispecie disciplinata dall’art. 103 cod. proc. pen., rispetto alla quale, peraltro, è di immediata evidenza la ragione che ha indotto il legislatore a dettare regole più severe quanto all’inutilizzabilità dei risultati probatori ottenuti contra legem, connettendosi al fatto che le ispezioni e le perquisizioni eseguite presso gli uffici dei difensori incidono non soltanto sull’inviolabilità del domicilio, ma anche sull’inviolabilità del diritto di difesa: diritto che – come nota anche l’Avvocatura dello Stato – di là dalla natura “servente” che il rimettente gli attribuisce, si erge a “principio supremo” dell’ordinamento costituzionale”.

L’applicazione del sopra esposto principio comporta affermare che non sussistendo un principio generale della invalidità derivata, anche a volere ammettere che l’operazione di acquisizione delle utenze contattate dai cellulari in uso a C. e M. da parte della polizia sia avvenuta illegittimamente perché effettuata in violazione dei citati articoli del codice di rito, da ciò non deriverebbe però l’inutilizzabilità delle successive attività di captazione degli sms effettuate in forza di autonomi decreti di intercettazione privi di qualsiasi vizio.

Così che quelle acquisizioni non potrebbero inficiare l’utilizzabilità delle successive intercettazioni effettuate sulle utenze identificate a seguito dell’analisi del traffico cellulare e dei contatti presenti nelle rispettive rubriche.

Ed allora in Italia ci teniamo i frutti dell’albero avvelenato: ma che ce frega, ma che ce importa, appunto.