Il mistero del processo secondo Salvatore Satta (di Vincenzo Giglio)

È estate e sarebbe il tempo del buon vivere che ognuno poi intende come vuole.

Mare o collina o montagna (per alcuni perfino la città perché, rimasta vuota, rivela finalmente la sua bellezza).

Cibo o digiuno.

Inerzia o movimento frenetico.

Settimana Enigmistica o letture di classici rimandate da anni.

Ecco, i libri.

Salvatore Satta scrisse quello che dà il titolo a questo post (Il mistero del processo, Adelphi, Milano, 1994).

Satta è stato uno dei padri nobili del pensiero giuridico italiano.

Da uno come lui ci si aspettano risposte chiare e definitive e se scrive un libro sul mistero del processo si è sicuri che svelerà il mistero e ci farà capire cos’è il processo.

E invece no, non proprio.

Leggiamolo:

negli anni della mia primavera – poiché anche i giuristi hanno una primavera – mi accadde di dover ragionare intorno al problema del cosiddetto “scopo del processo”. È un problema fondamentale, un problema centrale […]. E ragionando con la temerità propria dei giovani anni, io dissi allora che il problema era mal posto, addirittura non esisteva, perché semplicemente il processo come tale non aveva scopo, se anche uno naturalmente potevano e dovevano averne le persone che agivano nel processo e gli atti nei quali la loro azione si concretava“;

lo scopo di un atto, mi sembra si debba convenirne, è qualcosa che sta necessariamente fuori dell’atto, rappresenta l’inserirsi dell’atto nella vita pratica, e come tale è indispensabile all’atto, che privo dello scopo non sarebbe neppure un atto: la stessa legge riflette questa verità quando profila l’inidoneità dell’atto a raggiungere il suo scopo. Ma il processo? Ha il processo uno scopo? Non si dica, per carità, che lo scopo è l’attuazione della legge, o la difesa del diritto soggettivo, o la punizione del reo, e nemmeno la giustizia o la ricerca della verità: se ciò fosse vero sarebbe assolutamente incomprensibile la sentenza ingiusta, e la stessa forza del giudicato, che copre, assai più che la terra, gli errori dei giudici. Tutti questi possono essere e sono gli scopi del legislatore che organizza il processo, della parte o del pubblico ministero che in concreto lo promuove, non lo scopo del processo. Se uno scopo al processo si vuole assegnare questo non può essere che il giudizio; e processus judicii infatti era l’antica formula, contrattasi poi, quasi per antonomasia, in processo. Ma il giudizio non è uno scopo esterno al processo, perché il processo non è altro che giudizio e formazione di giudizio: esso dunque se ha uno scopo, lo ha in se stesso, il che è come dire che non ne ha alcuno. Veramente processo e giudizio sono atti senza scopo, i soli atti della vita che non hanno uno scopo. Paradosso? No, non è un paradosso; è un mistero, il mistero del processo, il mistero della vita. […] Di quest’atto senza scopo gli uomini hanno intuito la natura divina, e gli hanno dato in balìa tutta la loro esistenza. Di più: tutta la loro esistenza hanno costruito su quest’unico atto. Secondo il nostro credo, quando la vita sarà finita, quando l’azione sarà conclusa, verrà Uno, non per punire, non per premiare, ma per giudicare: qui venturus est judicare vivos et mortuos”.

Eccolo allora il mistero, secondo Satta: il processo non ha scopo né può esserlo il giudizio perché giudizio e processo sono la stessa cosa.

In quanto atto senza scopo, il processo acquisisce natura divina poiché gli esseri umani gli si affidano non razionalmente ma fideisticamente.

E lo fanno perché hanno bisogno di credere che non è indifferente vivere in un modo o in un altro: qualcuno dirà loro se hanno vissuto bene o male.

Non sono queste le risposte che ci si potrebbe aspettare ma Satta andava per la sua strada senza farsi condizionare dal cosiddetto senso comune.

Bisogna fare i conti con ciò che ha detto, perché potrebbe avere ragione.

Se l’avesse, sarebbe come dire che il processo è come il fuoco e noi tutti che ne discutiamo fino allo sfinimento non siamo altro che falene destinate a bruciarsi quando ci avviciniamo troppo.

Se l’avesse, bisognerebbe riconoscere anche un’altra verità: che chiunque si atteggi a profeta del processo è nient’altro che un falso profeta, perché afferma di sapere quello che nessun essere umano può sapere, essendoci un unico Uno cui spetta il giudizio.

E allora? E allora mi sento di dire che Satta e il suo mistero non sono adatti all’estate.

Altro non saprei.