Gli omicidi inspiegabili e il maestro zen (di Vincenzo Giglio)

Con sempre maggiore frequenza, complici l’immediatezza e la viralità dell’attuale sistema informativo, veniamo a contatto con fatti di sangue di tale brutalità e insensatezza da allarmare le nostre coscienze e generare orrore oltre che umana pietà.

A queste reazioni primarie segue solitamente una domanda, sempre la stessa: chi può commettere simili atrocità se non un pazzo?

Questa domanda/risposta ha una sua chiara genesi nella necessità auto-consolatoria di credere che la malvagità assoluta – quella che non ha spiegazioni che vadano oltre se stessa – non appartenga alla nostra specie e, ove si manifestino comportamenti che la evocano, non possano che derivare dalla follia.

Di contro, c’è chi pensa che gli esseri umani siano capaci eccome dei più alti picchi di malvagità senza per questo dover scomodare la psichiatria. I fautori di questa corrente di pensiero hanno dalla loro la storia e l’enorme quantità di malvagità umana dimostrata dai suoi annali.

In aggiunta e a sostegno, chiunque segua le cronache giudiziarie sa che la crudeltà, compresa quella che oltrepassa di molto lo standard mediano, è normalmente considerata un’aggravante piuttosto che il sintomo di un vizio di mente totale o parziale, così come sa che il nostro legislatore ha escluso ogni possibile rilevanza dei cosiddetti stati emotivi e passionali (espressione che nessuno è mai riuscito a definire con accettabile chiarezza sicché resta altrettanto misteriosa la loro incidenza effettiva sui processi motivazionali del soggetto agente).

Eccoci dunque all’alternativa che gli anglosassoni racchiudono nell’espressione “bad or mad?”, ovvero “malvagio o pazzo?“.

Un dilemma storico che ancora oggi non siamo in grado di sciogliere e che, se possibile, si fa sempre più complicato man mano che i progressi delle neuroscienze mettono sempre più a repentaglio il dogma del libero arbitrio così come lo conosciamo (o meglio, crediamo di conoscere).

Mentre attendiamo di saperne di più, possiamo accontentarci di un intrigante quesito posto dall’antropologo, sociologo e psicologo Gregory Bateson nel suo saggio L’ecologia della mente, pubblicato da Adelphi nel 1977.

La situazione di partenza vede un maestro zen seduto di fronte ad un allievo.

Il primo mostra un bastone al secondo e pronuncia queste parole: “se dici che questo bastone è reale te lo darò in testa, se dici che questo bastone non è reale te lo darò in testa, ma se anche non dirai nulla, te lo darò in testa lo stesso!“.

Mettiamoci adesso nei panni piuttosto scomodi dell’allievo.

È abbastanza facile immaginare cosa gli passi per la testa: il suo maestro ha un’arma in mano ed è intenzionato ad utilizzarla a prescindere dall’interazione che egli sceglierà tra le varie possibili; prova paura per la minaccia incombente, avverte un senso di stress per l’assenza di opzioni razionali e salvifiche tra quelle enumerate dal suo interlocutore, si sente quindi perseguitato e angosciato.

L’allievo può non fare nulla ma l’inerzia equivarrebbe ad una fuga dalla realtà con cui è chiamato a confrontarsi.

Oppure può scegliere di agire e, secondo Bateson, dispone anche questa volta di una doppia opzione: l’azione deviante e quella saggia.

È deviante la scelta di aggredire il maestro perché in questo modo l’allievo reagisce con violenza alla violenza e, soprattutto, compromette in modo irreversibile la relazione umana col maestro stesso.

È saggia l’azione di strappargli di mano il bastone, spezzarlo in due e renderlo quindi inservibile, e di dire infine “questo non è più un bastone!“. La saggezza sta nel fatto che, così comportandosi, l’allievo ha eliminato il problema, salvaguardando al tempo il suo creatore apparente e riuscendo a tenere indenne (e magari anche migliorare) il suo rapporto col maestro.

L’allievo in questo caso non ha annullato o negato le sue emozioni ma è riuscito ad incanalarle positivamente analizzando correttamente la realtà e individuando la migliore chiave per rispondere ad una sfida impegnativa.

Questo solo in conclusione si può dire di fronte agli abissi imperscrutabili di ognuno di noi: il lavoro che facciamo su noi stessi nel tentativo di comprendere chi siamo e di far venire fuori il nostro meglio e tenere a bada il nostro peggio è il lavoro di una vita intera ed è il più importante di tutti.