Messa alla prova: durata del lavoro di pubblica utilità e motivazione del giudice (di Vincenzo Giglio)

Cass. pen., Sez. 5^, sentenza n. 21907/2023, camera di consiglio dell’1° marzo 2023, offre pregevoli indicazioni sulla durata del programma trattamentale connesso alla messa alla prova e sulla relativa motivazione.

La ricognizione normativa

…Il programma trattamentale

L’art. 464-bis, comma 4, cod. proc. pen. prevede che, alla richiesta formulata dall’imputato, tesa ad ottenere la sospensione del procedimento con messa alla prova, debba essere allegato un programma di trattamento, elaborato d’intesa con l’ufficio di esecuzione penale esterna, ovvero, nel caso in cui non ne sia stata possibile la tempestiva redazione, va allegata la richiesta di elaborazione del menzionato programma, che deve prevedere: le modalità di coinvolgimento dell’imputato, nonché del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario e possibile; le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l’imputato assume anche al fine di elidere odi attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonché le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all’attività di volontariato di rilievo sociale; le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa, anche con lo svolgimento di programmi di giustizia riparativa (quest’ultima riferimento è stato introdotto all’art. 464-bis, comma 4, lett. c), introdotto dall’art. 29, comma 1, lett. a), n. 4), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150).

Il successivo art. 464-quater, comma 3, cod. proc. pen., stabilisce che la sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta quando il giudice, in base ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen., reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati.

…Prestazione di lavoro di pubblica utilità

L’art. 168-bis, comma 3, cod. pen., prevede, inoltre, che la concessione della messa alla prova sia subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. Questo consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato, «di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore».

Natura della messa alla prova

Va da subito evidenziato quale sia la natura dell’istituto della messa alla prova, nonché quali le finalità dello stesso.

A riguardo soccorrono gli autorevoli interventi delle Sezioni unite e della Corte costituzionale, che delineano la natura ibrida dell’istituto, di diritto processuale ma anche sostanziale, nonché la finalità preventiva generale e speciale del programma trattamentale, che deve essere ricondotto all’ambito sanzionatorio.

…I chiarimenti delle Sezioni unite

Difatti Sez. U., n. 36272 del 31/03/2016, Sorcinelli, Rv. 267238 – 01 in motivazione chiariva come si tratti di un istituto che «realizza una rinuncia statuale alla potestà punitiva condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata e assistita e si connota per una accentuata dimensione processuale, che la colloca nell’ambito dei procedimenti speciali alternativi al giudizio (Corte cost., n. 240 del 2015). Ma di essa va riconosciuta, soprattutto, la natura sostanziale. Da un lato, nuovo rito speciale, in cui l’imputato che rinuncia al processo ordinario trova il vantaggio di un trattamento sanzionatorio non detentivo; dall’altro, istituto che persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene “infranta” la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto».

Proseguono le Sezioni Unite nel delineare l’istituto, evidenziando come la sospensione del procedimento dia luogo ad una fase incidentale «in cui si svolge un vero e proprio esperimento trattamentale, sulla base di una prognosi di astensione dell’imputato dalla commissione di futuri reati che, in caso di esito positivo, determina l’estinzione del reato. Il percorso di “prova” comporta per l’imputato l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato e, se possibile, il risarcimento dei danni in favore della persona offesa, quindi l’affidamento al servizio sociale sulla base di un programma e, infine, la prestazione di un lavoro di pubblica utilità».

L’istituto ha finalità specialpreventiva e generalpreventiva, perseguita attraverso il trattamento «che conserva i caratteri sanzionatori, seppure alternativi alla detenzione», cosicché «il giudizio effettivo di ammissione del rito resta riservato alla valutazione del giudice circa l’idoneità del programma trattamentale proposto e la prognosi di esclusione della recidiva: valutazione, questa, che si svolge in base ai parametri dell’art. 133 cod. pen., i quali attengono alla gravità del reato, desunta dalla condotta, dall’entità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa e dalla intensità del dolo o dal grado della colpa. Ed è proprio questa la fase in cui assume effettivo e concreto rilievo la gravità dell’illecito».

…e quelli della Corte costituzionale

D’altro canto, la Corte costituzionale con la sentenza n. 91 del 2018 ritenendo infondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 27, secondo comma, Cost., richiamava Sez. U., Sorcinelli, nonché Corte cost. n. 54 del 2017, quanto alla natura afflittiva e rieducativa dell’istituto, implicante «una diversificazione dei contenuti, prescrittivi e di sostegno, del programma di trattamento, con l’affidamento al giudice di “un giudizio sull’idoneità del programma, quindi sui contenuti dello stesso, comprensivi sia della parte ‘afflittiva’ sia di quella ‘rieducativa’, in una valutazione complessiva circa la rispondenza del trattamento alle esigenze del caso concreto, che presuppone anche una prognosi di non recidiva».

In tale contesto, la Corte costituzionale chiariva come il «programma di trattamento per sua natura può essere determinato legislativamente solo attraverso l’indicazione dei tipi di condotta che ne possono formare oggetto, rimettendone la specificazione, come infatti è avvenuto, all’ufficio di esecuzione penale esterna e al giudice, con il consenso dell’imputato», aggiungendo che «il trattamento per sua natura è caratterizzato dalla finalità specialpreventiva e risocializzante che deve perseguire e deve perciò essere ampiamente modulabile, tenendo conto della personalità dell’imputato e dei reati oggetto dell’imputazione, sicché, considerata anche la sua base consensuale, non se ne può prospettare l’insufficiente determinatezza in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost.».

In sostanza la Corte costituzionale rileva come il legislatore abbia normato fin dove possibile, dovendo la personalizzazione del trattamento rispondere all’esigenza di un ‘esperimento’ che sia funzionale al recupero di quello specifico imputato.

Determinazione della durata del trattamento

Delineata la funzione dell’istituto della messa alla prova per adulti, nonché la necessità conseguente di un trattamento personalizzato in relazione all’imputato, va affrontato il tema della determinazione della durata del trattamento, oggetto della censura proposta dal ricorrente.

A tal proposito la Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 91 del 2018, richiamando l’ordinanza n. 54 del 2017, affermava che «Quanto alla misura temporale degli elementi del trattamento, va considerato che, anche se le norme censurate non lo specificano, la durata massima del lavoro di pubblica utilità «risulta indirettamente dall’art. 464-quater, comma 5, cod. proc. pen. perché, in mancanza di una sua diversa determinazione, corrisponde necessariamente alla durata della sospensione del procedimento, la quale non può essere: “a) superiore a due anni quando si procede per reati per i quali è prevista una pena detentiva, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria; b) superiore a un anno quando si procede per reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria”» (ordinanza n. 54 del 2017), e per determinare in concreto tale durata il giudice «deve tenere conto dei criteri previsti dall’art. 133 cod. pen. e delle caratteristiche che dovrà avere la prestazione lavorativa» (ordinanza n. 54 del 2017)».

In sostanza la Corte costituzionale inserendo la probation nel trattamento sanzionatorio richiede l’esercizio della discrezionalità, quanto alla durata dell’«esperimento», secondo i parametri dell’art. 133 cod. pen.

Inoltre, recentemente, sempre la Corte costituzionale, con la sentenza n. 74 del 2022, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 168-bis, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui non prevede che l’imputato possa essere ammesso alla sospensione del procedimento con messa alla prova nell’ipotesi in cui si proceda per reati connessi, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, con altri reati per i quali tale beneficio sia già stato concesso.

Anche in tale occasione ha ribadito, la Corte delle leggi, che l’istituto della messa alla prova «ha anche una innegabile connotazione sanzionatoria rispetto al reato per il quale si procede (sentenze n. 146 del 2022, n. 139 e n. 75 del 2020, n. 68 del 2019)», cosicché «l’impossibilità di ammettere alla messa alla prova chi abbia già avuto accesso al beneficio in relazione ad altro reato commesso in esecuzione di un medesimo disegno criminoso si traduce nell’impossibilità di sanzionare in modo sostanzialmente unitario tutti i reati avvinti dalla continuazione, in contrasto con la logica del sistema del codice penale».

Pertanto, a fronte della seconda richiesta di applicazione dell’istituto, se sussiste la connessione fra i reati, «spetterà al giudice, ai sensi dell’art. 464-quater, comma 3, cod. proc. pen., una nuova valutazione dell’idoneità del programma di trattamento e una nuova prognosi sull’astensione dalla commissione di ulteriori reati da parte dell’imputato. In tale valutazione non potrà non tenersi conto – per un verso – della natura e della gravità dei reati oggetto del nuovo procedimento, e – per altro verso – del percorso di riparazione e risocializzazione eventualmente già compiuto durante la prima messa alla prova. Nel caso poi in cui ritenga di poter concedere nuovamente il beneficio, il giudice stabilirà la durata del periodo aggiuntivo di messa alla prova, comunque entro i limiti complessivi indicati dall’art. 464-quater, comma 5, cod. proc. pen., valorizzando opportunamente il percorso già compiuto, alla luce dell’esigenza – sottesa al sistema – di apprestare una risposta sanzionatoria sostanzialmente unitaria rispetto a tutti i reati in concorso formale o commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso».

…Collegamento della durata ai limiti fissati dall’art. 464-quater, comma 5 cod. proc. pen. e alle previsioni dell’art. 133 cod. pen.

In conclusione, le pronunce della Corte costituzionale, che ribadiscono la funzione sanzionatoria della messa alla prova, nelle sue implicazioni complessive specialpreventive e generalpreventive, collegano la durata del trattamento medesimo ai limiti ‘edittali’ fissati dall’art. 464-quater, comma 5, cod. proc. pen. nonché alle previsioni dell’art. 133 cod. pen., per l’esercizio della discrezionalità del giudice all’interno dei limiti menzionati, nonché per la nuova determinazione in caso di reati in continuazione, che deve tenere in conto del periodo di messa alla prova già espletato e dell’esito dello stesso, come anche del percorso già compiuto.

Previsione del lavoro di pubblica utilità quale nucleo sanzionatorio dell’istituto della messa alla prova e necessità di ovviare alla mancata indicazione normativa dei criteri applicabili dal giudice per valutare la congruità della durata complessiva e dell’intensità del lavoro medesimo

A fronte di tale ricostruzione, Sez. 5, Cusimano, afferma condivisibilmente che la lettura sistematica di tali disposizioni lasci emergere che la previsione obbligatoria del lavoro di pubblica utilità costituisca il nucleo ‘sanzionatorio’ del sistema della sospensione con messa alla prova: si tratta, cioè, di una sanzione sostitutiva di tipo prescrittivo dotata di una indefettibile componente afflittiva.

Aggiunge la citata sentenza che «[…] la connotazione (sia pur latamente) sanzionatoria del lavoro di pubblica utilità impone di rilevare, come una lacuna significativa, la mancata previsione dei criteri cui il giudice deve attenersi nel vaglio di congruità della sua durata complessiva e della sua intensità. Dalle norme sopra richiamate si evincono: una durata minima di dieci giorni e una massima che, in mancanza di diverse indicazioni, non può che coincidere con i termini massimi di sospensione del procedimento (uno o due anni, a seconda della natura della pena edittale); un’intensità massima di otto ore giornaliere, senza indicazione del minimo. Non essendo previsto che la prestazione del lavoro gratuito debba necessariamente coprire l’intero periodo della sospensione – perché non avrebbe senso, altrimenti, la previsione di un limite minimo di dieci giorni – occorre individuare indici di commisurazione sufficientemente certi».

L’approdo cui giunge la richiamata Sez. 5, Cusimano è quello condivisibile quanto a due profili: il primo, quello di escludere che per la determinazione della durata del trattamento possa ricorrersi ai criteri dettati nei casi in cui il lavoro gratuito è previsto come pena sostitutiva di quella detentiva, perché nel caso della probation manca, per definizione, una condanna che possa fungere da limite e parametro di ragguaglio (a proposito di art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, Sez. 5 Cusimano richiama Sez. 1, n. 30089 del 26 giugno 2009, Rv. 244812; Sez. 3, n. 40995 del 23 maggio 2013, Rv. 256958; in tema di violazioni del codice della strada: Sez. 1, n. 12019 dell’1° febbraio 2013, Rv. 255341); il secondo profilo condivisibile è quello dell’applicazione in via analogica degli indici dettati dall’art. 133 cod. pen. per la commisurazione della pena, con una prospettiva che tenga conto a un tempo: della valutazione virtuale della gravità concreta del reato e del quantum di colpevolezza dell’imputato, nonché delle sue necessità di risocializzazione.

A tale approdo giungono anche successive sentenze, quanto al riferimento all’art. 133 cod. pen., che ora ritengono sufficiente, in caso di durata già indicata nel programma proposto, il richiamo alla congruità di quanto già previsto di intesa fra l’imputato e (omissis); ove invece difetti una determinazione previa sarà necessaria una motivazione più pregnante (in tal senso, Sez. 3, n. 55511 del 19/09/2017, Rv. 272067), ritenendosi che la durata non possa essere indicata con un generico rinvio ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen. posti in correlazione automatica con le indicazioni contenute in altri atti del procedimento, come il decreto penale di condanna opposto dall’imputato, poiché, in tal modo il giudice verrebbe meno allo specifico onere motivazionale che impone di dare conto delle ragioni delle scelte operate in relazione alla peculiarità del caso concreto (Sez. 5, n. 22136 del 10/03/2022, Rv. 283220 – 01).

Il caso all’esame di Sez. 5, Cusimano, prevedeva una durata della messa alla prova pari a due anni, vale a dire nella misura massima consentita; in quello analizzato da Sez. 5, all’imputato erano stati imposti 240 giorni di lavoro di pubblica utilità, corrispondenti a 480 ore di lavoro, ottenuti però parametrando la durata alla sanzione già determinata con il decreto penale di condanna, ritenendo la mancanza di una disciplina specifica e considerata l’applicazione analogica dei parametri indicati dall’art. 133 cod. pen.

E bene, si rileva che nel caso in esame si verta invece in tema di una sospensione per messa alla prova per una durata di sei mesi, in relazione alla quale il giudice così motivava: «ritenuta l’idoneità del programma di trattamento al fine di sottoporre alla messa alla prova l’imputato, rilevata la concreta empiria del fatto (ch )e, in particolare, l’apparente intensità del dolo».

Dunque, vi è una motivazione che, al di là dell’errore grammaticale del verbalizzante, esprime una valutazione di sussistenza della condotta e del dolo del reato (apparente vuol riferirsi alla valutazione virtuale), indici previsti dall’art. 133 cod. pen., ai quali, in uno alla idoneità del programma, vengono rapportate le ragioni della durata della messa alla prova.

Onere motivazionale del giudice

In tal senso, data la richiamata natura sanzionatoria dell’istituto, deve allora applicarsi il generale principio per la dosimetria della pena principale, richiamato in motivazione da Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, Pizzone, Rv. 282269, per cui nel caso in cui venga irrogata una pena di gran lunga più vicina al minimo che al massimo edittale, il mero richiamo ai “criteri di cui all’art. 133 cod. pen.” deve ritenersi motivazione sufficiente per dimostrare l’adeguatezza della pena all’entità del fatto; invero, l’obbligo della motivazione, in ordine alla congruità della pena inflitta, tanto più si attenua quanto maggiormente la pena, in concreto irrogata, si avvicina al minimo edittale (Sez. 1, n. 6677 del 05/05/1995, Rv.201537; Sez. 2, n. 28852 del 08/05/2013, Rv. 256464). E, per converso, quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente, fra i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall’art. 133 cod. pen., quelli ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio (Sez. 6, n. 35346 del 12/06/2008, Rv. 241189; Sez. 5, n. 511 del 26/11/1996, dep. 1997, 207497).

Non sfugge che l’onere motivazionale debba essere rafforzato nel caso della messa alla prova, rispetto a quanto accade in ordine alla sentenza di condanna, sia per le descritte più marcate finalità rieducative dell’istituto, sia anche per la peculiarità dello stesso, che non presuppone un accertamento quanto alla responsabilità penale, cosicché non può trarsi la durata del periodo di sospensione dalla conversione della condanna, come in precedenza evidenziato; né, tantomeno, la durata — quando non è oggetto del piano di trattamento condiviso dall’imputato con — è frutto di un accordo, come nel caso della pena applicata su concorde richiesta delle parti, il che riduce l’onere di motivazione.

Nel caso della messa alla prova, quindi, con un programma di trattamento proposto al giudice con durata indeterminata, la stessa dovrà essere definita con una adeguata motivazione, più intensa quanto maggiore sarà lo scostamento dal minimo previsto.

Proprio per il difetto di una sentenza di condanna recante una propria motivazione, dalla quale implicitamente trarre riferimenti in ordine alle ragioni della quantificazione della pena, non potrà evidentemente trovare applicazione l’orientamento che si parametra sulla media edittale, per cui per la pena principale al di sotto della predetta soglia non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Rv. 265283; Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Rv. 276288).

Il principio di diritto

Pertanto, deve affermarsi il principio per cui qualora il giudice, nel disporre la sospensione del procedimento penale con messa alla prova, si limiti a recepire il programma di trattamento, l’onere motivazionale quanto alla durata della sospensione può intendersi soddisfatto anche attraverso un semplice richiamo alla congruità del programma, trattandosi di un programma elaborato di intesa con l’imputato e, dunque, conosciuto e condiviso da quest’ultimo. Qualora, invece, il programma non contenga alcun riferimento alla durata della sospensione il giudice dovrà fornire una motivazione, che non può limitarsi ad un semplice richiamo al programma stesso e per il quale valgono i criteri motivazionali dell’art. 133 cod. pen., con la necessità di una motivazione tanto più significativa quanto più ci si discosti dalla durata minima prevista di giorni dieci.