Quando il linguaggio giudiziario diventa ostile (di Vincenzo Giglio)

Qualche mese fa su Questione Giustizia è stato pubblicato l’articolo Per un linguaggio non ostile dentro e fuori il processo. Il potere delle parole. Avere cura delle parole di Luciana Breggia (a questo link per chi volesse leggerlo integralmente e in effetti ne vale la pena).

Ne faceva parte una sorta di manifesto (allegato qui alla fine del post) che contiene le linee guida per chi, appunto, voglia evitare il linguaggio ostile non solo in ambito giudiziario ma in qualsiasi altro contesto, reale o digitale che sia.

Penso tutto il bene possibile di quelle linee guida e dell’idea che gli sta dietro.

La gentilezza, il rispetto, le parole come veicolo di chiarezza e non di confusione, la finta neutralità del silenzio che può essere anch’esso ostile, l’importanza dell’ascolto: condivido senza riserve ognuna di queste proposizioni.

Tuttavia, un invito come quello della Breggia implica, perché altrimenti non avrebbe senso, che almeno qualcuno non si attenga al decalogo aureo.

Terzultima Fermata, dal canto suo, è nata anche per questo, per riflettere sul linguaggio del diritto e svelarne l’uso mistificatorio o vago e contorto quando si manifesta.

Ecco allora un esempio assai calzante di parole ostili in quanto inservibili in ambito giudiziario.

Lo traggo da Cass. pen., Sez. 1^, sentenza n. 37783/2021.

La questione cruciale affrontata dal collegio di legittimità ruotava attorno all’obbligo di motivazione rinforzata che grava sul giudice di appello che intenda riformare la decisione di primo grado.

I giudici della Cassazione avevano quindi il compito di chiarire cosa dovesse intendersi per motivazione rinforzata.

Se la sono cavata così:

–          è rinforzata la motivazione che possiede  una forza persuasiva superiore rispetto alla decisione riformata;

–          questa forza deriva a sua volta da un “apparato giustificativo più vincolato nelle sue cadenze e nei suoi passaggi argomentativi“;

–          se dunque il giudice di secondo grado intravede la possibilità della riforma è tenuto ad intraprendere un percorso quali-quantitativo: in altri termini, usando le parole testuali della decisione, “il giudice di seconde cure che intenda mutare (integralmente o parzialmente) la decisione di primo grado deve partire dalla sua motivazione e ad essa fare ritorno mentre rivaluta l’intera vicenda“;

–          questo percorso deve snodarsi attraverso un triplice step: “a) dimostrare di avere compiuto un’analisi stringente, approfondita, piena del provvedimento impugnato; b) spiegare, anche in ragione dei motivi di impugnazione e del perimetro cognitivo devoluto, perché non si è condiviso il decisum; c) chiarire quali sono le ragioni fondanti – a livello logico e probatorio – la nuova decisione assunta“;

–          la motivazione rinforzata è infine differente secondo che il secondo giudice si appresti a riformare una sentenza di condanna o una sentenza di assoluzione: “Mentre infatti per pronunciare nel giudizio di appello una sentenza di condanna a fronte di una pronuncia assolutoria in cui sia emerso un dubbio ragionevole, è necessario rimuovere il dubbio con un ragionamento che ne dimostri l’infondatezza ovvero l’inesistenza, nel caso, come quello di specie, di sentenza di assoluzione che riformi una precedente sentenza di condanna, nonostante l’obbligo di motivazione rafforzata, è in realtà sufficiente argomentare in positivo, nel senso che è necessario e sufficiente rappresentare l’esistenza del dubbio ragionevole. Se per emettere una sentenza di condanna è necessaria la certezza della colpevolezza, la motivazione della sentenza del giudice d’appello che riformi, come nel caso di specie, una sentenza di condanna deve essere rafforzata sulla plausibilità di un ragionamento volto non già a far venire meno ogni ragionevole dubbio bensì a sollevarne uno. Si è condivisibilmente notato come, mentre nel caso di riforma peggiorativa di una sentenza di assoluzione, il giudice di appello debba prima demolire il ragionamento probatorio culminato con la deliberazione del primo giudice e poi strutturare un proprio ragionamento che dimostri, al di là di ogni ragionevole dubbio, il fondamento della tesi opposta, in caso invece, di integrale riforma migliorativa di una sentenza di condanna il giudice di appello, seppur con una motivazione rafforzata – nel senso indicato, deve solo destrutturare il ragionamento del primo giudice, nel senso di configurare l’esistenza di un ragionevole dubbio che di per sé è destinato a destituire di fondamento la prospettiva accusatoria recepita dal primo giudice“.

Elementari regole di fair play richiederebbe a questo punto l’uso di eleganti perifrasi.

La sostanza però non cambierebbe e allora tanto vale parlare chiaro così come chiede Luciana Breggia.

Dirò quindi che la decisione citata è incomprensibile e quindi inservibile.

Se il compito del giudice è dire il diritto e quello della Suprema Corte è di dirlo in modo chiaro, stabile e prevedibile, questa decisione è disfunzionale a quel compito e per ciò stesso non serve a nulla.

Non un solo suo rigo chiarisce la differenza tra una motivazione ordinaria ed una rinforzata posto che i compiti spettanti al giudice d’appello intenzionato a riformare la sentenza impugnata non differiscono in nulla, fatta eccezione per l’enfasi descrittiva e per l’elencazione didascalica, da quelli che è lecito attendersi assolti dal giudice propenso alla conferma.

A meno che, ma sarebbe davvero impensabile, si ipotizzi che il collegio di legittimità abbia inteso affermare, tanto per fare un esempio, che il giudice della conferma possa indulgere in analisi meno stringenti, approfondite e piene di quelle spettanti al giudice della riforma.

Non una sola proposizione è formulata in modo da consentire al lettore, qualificato o ordinario che sia, di comprendere quale sia il suo esatto significato. Dire, ad esempio, che «il giudice di seconde cure che intenda mutare (integralmente o parzialmente) la decisione di primo grado deve partire dalla sua motivazione e ad essa fare ritorno mentre rivaluta l’intera vicenda» equivale a non dire nulla perché, al di là della piacevolezza dell’espressione e della sua capacità evocativa di un viaggio da compiere, al viaggiatore non è offerta alcuna guida che lo orienti e prevenga direzioni sbagliate.

E che capacità differenziante si potrà mai attribuire al «nesso di stretta relazione tra la quantità e la qualità delle ragioni espresse nella motivazione del giudice con la quantità e la qualità degli argomenti e delle ragioni espresse dall’impugnante»?

Si apprende poi che il giudice di primo grado e il giudice d’appello non sono «posizionati orizzontalmente rispetto allo stesso materiale di prova» e davvero non sembra una novità rivoluzionaria, tantomeno una linea interpretativa che valga la pena tramandare.

Un capitolo a parte meriterebbero la sovrabbondante aggettivazione (tra gli altri: il già citato stringente, penetrante, rigoroso) che, se da un lato palesa una certa tensione ideale verso mondi geometrici e razionali, dall’altro nulla aggiunge in termini di reale capacità descrittiva, e l’altrettanto intenso ricorso a misuratori di quantità o qualità di sfuggente consistenza (superiore, solido, ragionevole, rassicurante, convincente).

Finisco nel modo più chiaro possibile.

Che rimane di questa decisione? Nulla.

Che si capisce di questa decisione? Una cippa.