Non maltrattamenti ma atti persecutori, una volta cessata la convivenza more uxorio: non rilevano consuetudini di vita comune o condivisioni di responsabilità genitoriali (di Riccardo Radi)

La cassazione, con una lettura costituzionalmente orientata (sentenza n. 98/2021) della fattispecie dell’articolo 572 c.p., prova a superare definitivamente il contrasto giurisprudenziale esistente sulla configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia anche in caso di cessazione della convivenza more uxorio, quando tra i soggetti permane un vincolo assimilabile a quello familiare, in ragione di una mantenuta consuetudine di vita comune o dell’esercizio condiviso della responsabilità genitoriale ex art. 337-ter codice civile.

La Suprema Corte sezione 6 con la sentenza numero 45520 depositata il 30 novembre 2022 ha stabilito che le condotte vessatorie poste in essere da parte di uno dei conviventi more uxorio ai danni dell’altro, dopo la cessazione della convivenza, non sono riconducibili al reato di maltrattamenti in famiglia.

Si ritiene che terminata la convivenza viene meno la comunanza di vita e di affetti, nonché il rapporto di reciproco affidamento che giustificano la configurabilità della più grave ipotesi di cui all’articolo 572 c.p. (sezione 6, n. 15883 del 16 marzo 2022, Rv 283436; sezione 6, n. 10626 del 16 febbraio 2022, Rv 283003-02).

Questo orientamento garantisce una lettura della fattispecie maggiormente rispettosa del dato normativo e della ratio sottesa alla maggior gravità del reato commesso in un ambito “familiare” o, comunque, ad esso assimilabile.

La massima: “Nell’ipotesi di vessazioni nei confronti dell’ex, l’interruzione della convivenza determina il venir meno del rapporto di necessaria prossimità tra vittima ed autore degli illeciti e, quindi, impedisce la configurabilità del reato di maltrattamenti, potendosi invece ravvisare l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori ex articolo 612-bis Cp commessi da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla vittima del reato”.

Giova ricordare la sentenza n. 98 del 2021della Corte Costituzionale, estensore. Francesco Viganò, che rilevava:

La giurisprudenza di legittimità, considerata alla luce dei casi di volta di volta esaminati, fornisce dunque indicazioni assai meno univoche di quanto appaia dall’ordinanza di rimessione circa la possibilità di sussumere entro la figura legale descritta dall’art. 572 cod. pen., e non in quella di cui all’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., condotte abusive poste in essere nel contesto di una relazione affettiva con le caratteristiche illustrate nell’ordinanza di rimessione, ove si dà atto in particolare dell’assenza di convivenza (presente o passata) tra i due protagonisti della vicenda”.

Ma, soprattutto, nel procedere alla qualificazione giuridica dei fatti accertati in giudizio il rimettente omette di confrontarsi con il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale, dal divieto di analogia a sfavore del reo: canone affermato a livello di fonti primarie dall’art. 14 delle Preleggi nonché – implicitamente – dall’art. 1 cod. pen., e fondato a livello costituzionale sul principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta) (sentenza n. 447 del 1998).

Il divieto di analogia non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. E ciò in quanto, nella prospettiva culturale nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità in materia penale, è il testo della legge – non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore. Ciò vale non solo per il nostro, ma anche per altri ordinamenti ispirati alla medesima prospettiva, come dimostra la giurisprudenza del Tribunale costituzionale federale tedesco, secondo cui in materia penale «il possibile significato letterale della legge fissa il limite estremo della sua legittima interpretazione da parte del giudice» (BVerfGE 73, 206, (235); in senso conforme, più recentemente, BVerfGE 130, 1 (43); 126, 170 (197); 105, 135 (157); 92, 1 (12)).

Il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale (su quest’ultimo profilo, si vedano in particolare le sentenze n. 96 del 1981 e n. 34 del 1995, nonché, con riferimento alle sanzioni amministrative di carattere punitivo, n. 121 del 2018): corollari posti a tutela sia del principio “ordinamentale” della separazione dei poteri, e della conseguente attribuzione al solo legislatore del compito di tracciare i confini tra condotte penalmente rilevanti e irrilevanti (ordinanza n. 24 del 2017), nonché – evidentemente – tra le diverse figure di reato; sia della garanzia “soggettiva”, riconosciuta ad ogni consociato, della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, a tutela delle sue libere scelte d’azione (sentenza n. 364 del 1988).

È evidente infatti che la ratio della riserva assoluta di legge in materia penale, che assegna alla sola legge e agli atti aventi forza di legge il compito di stabilire quali siano le condotte costituenti reato, sul presupposto che una simile decisione – destinata potenzialmente a ripercuotersi in maniera drammatica sul diritto «inviolabile» (art. 13 Cost.) alla libertà personale dei destinatari della norma penale – spetti soltanto ai rappresentanti eletti a suffragio universale dall’intera collettività nazionale (sentenze n. 230 del 2012, n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), verrebbe nella sostanza svuotata ove ai giudici fosse consentito di applicare pene al di là dei casi espressamente previsti dalla legge.

Per altro verso, il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce l’ovvio pendant dell’imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di «formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati» (sentenza n. 96 del 1981). Tale imperativo mira anch’esso a «evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l’illecito» (sentenza n. 327 del 2008), nonché quelli tra le diverse fattispecie di reato; ma, al tempo stesso, mira altresì ad assicurare al destinatario della norma «una percezione sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (così, ancora, la sentenza n. 327 del 2008, nonché la sentenza n. 5 del 2004). Tanto che proprio rispetto al mandato costituzionale di determinatezza della norma incriminatrice questa Corte ha recentemente rammentato che «l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo» (sentenza n. 115 del 2018). La garanzia soggettiva che la determinatezza della legge penale mira ad assicurare sarebbe, in effetti, anch’essa svuotata, laddove al giudice penale fosse consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello che il consociato possa desumere dalla sua immediata lettura.

E dunque, il pur comprensibile intento, sotteso all’indirizzo giurisprudenziale cui il rimettente aderisce, di assicurare una più intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili, vittime di condotte abusive nell’ambito di rapporti affettivi dai quali esse hanno difficoltà a sottrarsi, deve necessariamente misurarsi con l’interrogativo se il risultato di una siffatta interpretazione teleologica sia compatibile con i significati letterali dei requisiti alternativi «persona della famiglia» e «persona comunque […] convivente» con l’autore del reato; requisiti che circoscrivono – per quanto qui rileva – l’ambito delle relazioni nelle quali le condotte debbono avere luogo, per poter essere considerate penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 572 cod. pen.

Il divieto di analogia in malam partem impone, più in particolare, di chiarire se davvero possa sostenersi che la sussistenza di una relazione, come quella che risulta intercorsa tra imputato e persona offesa nel processo a quo, consenta di qualificare quest’ultima come persona (già) appartenente alla medesima “famiglia” dell’imputato; o se, in alternativa, un rapporto affettivo dipanatosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro possa già considerarsi, alla stregua dell’ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di “convivenza”.

In difetto di una tale dimostrazione, l’applicazione dell’art. 572 cod. pen. in casi siffatti – in luogo dell’art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che pure contempla espressamente l’ipotesi di condotte commesse a danno di persona «legata da relazione affettiva» all’agente – apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico, sulla base delle ragioni ampiamente illustrate dal rimettente, ma comunque preclusa dall’art. 25, secondo comma, Cost.

Il mancato confronto con le implicazioni del divieto costituzionale di applicazione analogica della legge penale in malam partem in relazione al caso di specie comporta dunque una lacuna motivazionale sulla rilevanza delle questioni prospettate, che ne determina l’inammissibilità (da ultimo, sentenza n. 57 del 2021)”.

In questa motivazione c’era già tutto ma come spesso accade era passata inosservata.