
Nei pochi giorni passati dalla nascita del Governo Meloni, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha già emesso segnali piuttosto chiari sulle prospettive che intende imprimere all’azione del suo dicastero.
Il primo è la nomina di Alberto Rizzo a suo capo di gabinetto e di Giusi Bartolozzi a sua vice.
Sono entrambi magistrati: il primo, già ispettore generale capo del ministero della Giustizia, viene da otto anni di presidenza del tribunale di Vicenza ed ha fama di eccellente organizzatore; la seconda, dopo essere stata consigliere della Corte di appello di Roma, ha appena concluso il suo mandato parlamentare alla Camera dei Deputati alla quale era stata candidata da Forza Italia, salvo poi passare nel gruppo misto nella parte finale della legislatura.
Al di là dei loro meriti individuali, non in discussione, Rizzo e Bartolozzi condividono quindi non solo l’appartenenza alla magistratura ma la propensione ad esperienze fuori ruolo.
Tutto perfettamente lecito, va da sé, ma la loro scelta sembra piuttosto incoerente con la visione di Nordio: se è un suo punto programmatico la separazione delle carriere tra magistratura requirente e magistratura giudicante, un suo implicito corollario dovrebbe essere anche la separazione tra magistratura e incarichi politico – amministrativi.
Il secondo segnale è l’attribuzione di un’importanza prioritaria alle carceri che segue alla linea guida più volte sottolineata dal neo-ministro: garantire con la massima pienezza sia la presunzione d’innocenza che la certezza della pena.
Applausi a scena aperta per la prima parte dell’equazione. La seconda parte può invece significare molte cose diverse e lo stesso vale per il suo concetto basico, la pena.
A questo proposito si registrano già posizioni piuttosto differenziate nell’Esecutivo: il presidente del Consiglio Giorgia Meloni chiarisce che il cronico sovraffollamento carcerario si risolve non depenalizzando ma aumentando carceri e celle, Nordio è sembrato invece puntare su un’ampia depenalizzazione.
Al di là di questa già rilevante differenza di impostazioni, manca o è solo accennata la questione delle iniziative indispensabili per ridare vita al principio costituzionale del finalismo rieducativo della pena che anni di insensibilità e populismo hanno reso carta straccia. E nel frattempo, mentre a Roma si dibatte, 71 detenuti si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno.
Il terzo e per ora ultimo segnale è la volontà di Nordio di depotenziare ulteriormente o perfino abolire il reato di abuso d’ufficio la cui passata indeterminatezza ha consentito così tante invasioni di campo della magistratura nella sfera discrezionale delle pubbliche amministrazioni da imporre più interventi correttivi, l’ultimo dei quali avvenuto con la Legge 120/2021.
Il tema è assai sentito dal “partito” quanto mai trasversale dei sindaci e degli amministratori pubblici che lamentano l’elevata rischiosità delle loro decisioni e il micidiale effetto combinato di un’eventuale condanna in primo grado per abuso cui seguono gli automatismi impeditivi della cosiddetta legge Severino.
Queste nel complesso le prime novità e indicano già una linea di tendenza: i problemi della politica contano molto, i problemi dei carcerati contano poco, i magistrati non saranno cacciati via dal tempio (leggasi uffici di via Arenula), non tutti almeno.
E per ora è tutto.


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