“Gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna”: il diritto a non essere processati nell’articolo 425 comma 3 cpp (di Riccardo Radi)

La riforma Cartabia introduce con poche parole una novità sostanziale: il “diritto a non essere processati”.

Il suo articolo 23 (Modifiche al Titolo IX del Libro V del codice di procedura penale) così dispone infatti: all’articolo 425, al comma 3, le parole: “risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio” sono sostituite dalle seguenti: “non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna”.

Uno snodo fondamentale dell’udienza predibattimentale è rappresentato dalla possibilità di definizione anticipata nei casi in cui ricorrano ragioni immediate di proscioglimento ed in tutti i casi in cui “Gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna”.

Senza entrare nello specifico della novella che ha innovato anche la previsione dell’articolo 425 cpp, è evidente che lo standard di adeguatezza richiesto al compendio posto a sostegno dell’azione penale sia stato significativamente elevato e che, pertanto, l’esame sull’attitudine del materiale d’indagine a sostenere una pronuncia di condanna – seppure sempre compiuto in termini prognostici – debba essere particolarmente penetrante.

In altri termini, la scelta espressiva compiuta dal legislatore sottolinea che la trasmissione degli atti al giudice del dibattimento (come specularmente l’emissione del decreto che dispone il giudizio ex art. 429 c.p.p.) non si radichi più sulla semplice meritevolezza della verifica dell’ipotesi accusatoria nel contraddittorio tra le parti, bensì su una necessità di attivare il processo in senso stretto solo nei casi in cui il suo esito appaia ragionevolmente orientato verso una conferma di quella ipotesi d’accusa.

Dunque, viene valorizzata la tutela di quello che illustre dottrina processualistica definiva “diritto al non processo”.

Appare, pertanto, ipotizzabile che il PM e le altre parte private possano avvertire l’esigenza di sostenere la propria tesi nell’udienza predibattimentale con discussioni che non siano di mero stile ma che cerchino di convincere il giudice dell’intervenuto conseguimento o non, con le indagini compiute, della potenzialità dimostrativa richiesta della disposizione in esame.

Naturalmente tutto questo richiederà al giudice una conoscenza degli elementi procedimentali tale da saper indirizzare la discussione dei contraddittori verso i profili salienti della valutazione (processuale) richiesta con il massimo contenimento di ogni divagazione che non sia funzionale alla meta indicata della “ragionevole previsione di condanna”.

Non appare superfluo ricordare i limiti di una pronuncia di non luogo a procedere, ai sensi dell’articolo 425, comma 3, cpp, con l’attuale formulazione, alla luce dell’interpretazione della Corte costituzionale e della Cassazione.

Quanto ai primi, è principio acquisito che, a seguito dell’evoluzione giurisprudenziale, l’udienza preliminare abbia perso la sua connotazione di semplice “filtro” per assumerne una spiccatamente di merito.

Questo aspetto è stato ribadito dalla Corte costituzionale che, con la sentenza n. 335 del 2002, occupandosi delle ricadute delle modifiche normative sull’art. 34 cod. proc. pen., ha rilevato come, “a seguito delle innovazioni legislative ricordate dai rimettenti (legge n. 479 del 1999), l’incremento quantitativo e qualitativo dei poteri riconosciuti al giudice e alle parti e, corrispondentemente, l’ampiezza delle valutazioni e del contenuto delle decisioni che lo stesso giudice è chiamato a prendere all’esito dell’udienza preliminare, abbiano determinato il venir meno di quei caratteri di sommarietà, propri di una decisione orientata esclusivamente allo svolgimento del processo, che in precedenza connotavano detta sede” divenendo un momento di giudizio che “in questo modo, chiama il giudice a una valutazione di merito sulla consistenza dell’accusa, consistente in una prognosi sulla sua possibilità di successo nella fase dibattimentale“.

Nello stesso senso le Sezioni Unite n. 39915 del 2002 hanno osservato che “il radicale incremento dei poteri di cognizione e di decisione del giudice dell’udienza preliminare, pur legittimando quest’ultimo a muoversi implicitamente anche nella prospettiva della probabilità di colpevolezza dell’imputato, non lo ha tuttavia disancorato dalla fondamentale regola di giudizio per la valutazione prognostica, in ordine al maggior grado di probabilità logica e di successo della prospettazione accusatoria ed all’effettiva utilità della fase dibattimentale, di cui il legislatore della riforma persegue, espressamente, una significativa deflazione“.

Se questo principio si correla a quello cardine della completezza delle indagini – necessarie per consentire l’accesso dell’imputato ai riti alternativi – e al dovere di non pregiudicare oltre il necessario la situazione di chi è sottoposto a giudizio, è evidente come la finalità della modifica normativa non abbia avuto il significato di creare un nuovo giudizio di merito, ma abbia soltanto inteso evitare che imputazioni inconsistenti o palesemente azzardate abbiano un epilogo processuale.

In questa scia si sono collocate alcune pronunce di legittimità che ricalcano il valore meramente “processuale” della sentenza di non luogo a procedere (“il giudice dell’udienza preliminare nel pronunciare sentenza di non luogo a procedere, a norma dell’art. 425, comma terzo, cod. proc. pen., deve valutare, sotto il solo profilo processuale, se gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio, non potendo procedere a valutazioni di merito del materiale probatorio ed esprimere, quindi, un giudizio di colpevolezza dell’imputato ed essendogli inibito il proscioglimento in tutti i casi in cui le fonti di prova si prestino a soluzioni alternative e aperte o, comunque, ad essere diversamente rivalutate” (Sez. 2, n. 48831 del 14/11/2013, Rv. 257645).

Ad esse sono seguite altre che parlano di “merito”, ma sempre riferito all’idoneità dell’accusa e, quindi, a valutazioni preliminari di tipo processuale (si veda Sez. 4, n. 9923 del 19/01/2015, secondo cui la sentenza di non luogo a procedere, dopo le modifiche subite dall’art. 425 c.p.p., a seguito della L. 16 dicembre 1999, n. 479, non ha più finalità meramente procedurali, perché consente una vera e propria valutazione “di merito” dell’accusa, sebbene solo per finalità preliminari e cioè al fine di consentire al giudice di decidere se prosciogliere l’imputato – con una sentenza “stabile” ma non irrevocabile – ovvero rinviarlo a giudizio innanzi al giudice dibattimentale; o ancora Sez. 6, n. 33763 del 30/04/2015 – dep. 30/07/2015, Rv. 264427, secondo cui il giudice dell’udienza preliminare è chiamato ad una valutazione di effettiva consistenza del materiale probatorio posto a fondamento dell’accusa, eventualmente avvalendosi dei suoi poteri di integrazione delle indagini, e, ove ritenga sussistere tale necessaria condizione minima, deve disporre il rinvio a giudizio dell’imputato, salvo che vi siano concrete ragioni per ritenere che il materiale individuato, o ragionevolmente acquisibile in dibattimento, non consenta in alcun modo di provare la sua colpevolezza).

Quello che, comunque, in tutte le pronunce di legittimità si evidenzia è che l’insufficienza e la contraddittorietà degli elementi legittimanti una sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425, comma 3, cod. proc. pen., devono avere caratteristiche tali da non potersi ritenere ragionevolmente superabili in giudizio.

Il giudice dell’udienza preliminare può, pertanto, pronunciare sentenza di non luogo a procedere nei confronti dell’imputato solo in presenza di una situazione di innocenza tale da apparire non superabile in dibattimento dall’acquisizione di nuovi elementi di prova o da una possibile diversa valutazione del compendio probatorio già acquisito.

Il tenore letterale dell’art. 425, comma 3, cod. proc. pen., d’altro canto, non fa che confermare che il criterio di valutazione per il giudice dell’udienza preliminare non è l’innocenza, bensì l’impossibilità di sostenere l’accusa in giudizio (Sez. 4^, 2 luglio 2013 – 22 ottobre 2013 n. 43198, ed in senso conforme la sentenza del 2015 sopra citata).

Il giudice dell’udienza preliminare svolge, invero, una funzione di filtro e, nel rispetto della stessa, deve solo decidere se il materiale probatorio raccolto in sede di indagini preliminari sia o meno idoneo a sostenere l’accusa in giudizio, con esclusione del proscioglimento in tutti quei casi in cui le fonti di prova a carico dell’imputato si prestino a soluzioni alternative o aperte o, comunque che possano essere diversamente rivalutate.

Con le modifiche all’articolo 425 cpp introdotte dalla riforma Cartabia ora chiede a questi giudici cresciuti con l’interpretazione dell’articolo 425 comma 3 c.p.p. appena illustrata un salto di pensiero epocale: “diritto al non processo”.