Ragionevole previsione di condanna come nuova condizione per proseguire i processi penali: luci e ombre (di Vincenzo Giglio)

È ormai imminente l’entrata in vigore del decreto legislativo che attua la riforma Cartabia in materia di giustizia penale (l. 134/2021).

Tra le sue molteplici novità ha o potrebbe avere un posto di primo piano l’adozione di una nuova regola per la definizione anticipata del procedimento in esito all’udienza preliminare.

Le lettere a) ed m) dell’art. 1, comma 9, della legge n. 134 hanno imposto al legislatore delegato la previsione della medesima formula sia per la richiesta di archiviazione (art. 408 c.p.p.) che per la sentenza di non doversi procedere in esito all’udienza preliminare (art. 425, comma 2, c.p.p.): al di là delle particolarità delle due ipotesi, l’archiviazione è disposta e la sentenza è emessa quando gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna.

Le lettere a) e d) dell’art. 1, comma 12, hanno dal canto loro propiziato l’introduzione nel codice di rito dei nuovi artt. 554-bis e 554-ter che disciplinano la nuova udienza predibattimentale camerale dinanzi al Tribunale monocratico a seguito di citazione diretta. In particolare, l’art. 554-ter, comma 1, similmente a quanto previsto per l’archiviazione e il proscioglimento nell’udienza preliminare, affida al giudice il compito di pronunciare sentenza di non luogo a procedere “quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna”.

È allora evidente che questa nuova regola non è una disposizione di dettaglio quanto piuttosto il segmento essenziale di una strategia legislativa volta a introdurre uno sbarramento realmente in grado di interrompere il percorso dei procedimenti privi di consistenza la cui permanenza in vita sarebbe solo un intralcio per la giustizia penale e una pena insensata per chi li subisce.

Dovrebbe quindi assicurare la finalità deflattiva che fin qui non si è mai avverata e contribuire significativamente a ridurre l’arretrato cronico della giustizia penale.

Se questi sono i presupposti, ciò che conta, come sempre, è se funzioneranno gli strumenti messi in campo o, per meglio dire, se pubblici ministeri e giudici, così come i difensori per la parte che gli compete, vorranno e sapranno servirsene coerentemente agli scopi legislativi.

La prima condizione è che gli uffici del pubblico ministero comincino finalmente ad osservare l’obbligo di intendere le indagini preliminari come fase preordinata alla ricerca della verità e non più limitata asfitticamente alla conferma (o, nei casi peggiori, alla creazione) dell’accusa, avendo peraltro la consapevolezza di non poter più rimandare al dibattimento la ricerca e l’acquisizione degli elementi non cercati e non acquisiti nella fase primigenia del procedimento.

Se questo cambio di passo non avverrà, sarà sempre più velleitaria e pretestuosa la tesi che si oppone alla separazione delle carriere sul presupposto della cultura della giurisdizione che accomuna PM e giudici.

Responsabilità ugualmente forti gravano sulla magistratura giudicante.

La “ragionevole previsione di condanna” è solo una formula linguistica, per di più imperniata su un aggettivo e su un sostantivo che portano in sé un quantum di vaghezza di non poco conto.

La previsione è nient’altro che una congettura la cui concreta verificabilità è tanto più elevata quanto più sono significativi i fatti sui quali è fondata.

La ragionevolezza è una qualificazione di cui il legislatore si serve ogni qualvolta vuole indicare all’interprete la strada del buon senso e dell’equilibrio ma basta un esame a campione della giurisprudenza di questi anni per comprendere quanti significati diversi siano stati attribuiti a questo termine, ivi compresi quelli che ne erano palesemente la negazione.

Bisognerà dunque che chi ha responsabilità decisionali nelle fasi procedimentali in cui ciò che è inutile e infondato deve essere fermato abbandoni ogni tentazione di pigrizia intellettuale (in dubio pro actione) e disimpegno (una sentenza di proscioglimento costa più fatica e implica più responsabilità di un comodo rinvio a giudizio) e operi sentendosi parte di un microcosmo a risorse limitate che può e deve essere concentrato soltanto sui casi che richiedono un cognizione piena.

È certo poi che anche i difensori delle parti private dovranno avere un ruolo ancora più significativo che in passato.

Saranno assai meno premianti le logiche attendiste che intendono il dibattimento come principale o unico scenario ove spiegare le resistenza alla tesi d’accusa.

Dovranno per contro aumentare le condotte proattive, particolarmente attraverso un uso proficuo delle investigazioni difensive tale da costituire un credibile manifesto difensivo che né l’accusa né il giudice possano permettersi di ignorare o minimizzare.

Ma dovrà anche emergere parallelamente una cultura della collaborazione col pubblico ministero, non più inteso soltanto come antagonista fisiologico ma anche come parte con cui colloquiare stabilmente nel comune sforzo di ricerca degli elementi conoscitivi indispensabili o utili per distinguere il grano dalla zizzania.

In altri termini, al difensore sarà chiesto di conformare la sua attività non più soltanto nella prospettiva del contradditorio dibattimentale ma anche, forse soprattutto, allo scopo di contribuire ad orientare scelte “ragionevoli” di chi decide e, va da sé, anche di chi si difende, essendo indubbiamente conveniente anche per l’accusato disporre di tutti gli elementi necessari per una prognosi attendibile dell’esito del procedimento.

Se questo è il senso di ciò che ha voluto il legislatore e della parte che avranno i protagonisti del procedimento per assicurarne la realizzazione, non si deve comunque dimenticare che la riforma, al pari di ogni altra, non è esente da rischi.

La loro parte più consistente deriva dalla possibilità, purtroppo tutt’altro che remota, che gli uffici del pubblico ministero non intendano abbandonare l’attuale focalizzazione delle indagini in senso prettamente accusatorio e, ancor di più, che continui quell’automatismo piuttosto diffuso in ambito giudicante di privilegiare le tesi d’accusa a discapito di quelle difensive, con l’effetto di indebolire il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza.

Ben si comprende che, se questa distorta sensibilità perdurasse, sarebbe fisiologica una reazione difensiva volta a concentrare l’esercizio di prova non, come sarebbe essenziale per la buona riuscita della riforma, nelle fasi predibattimentali ma a dibattimento iniziato e contradditorio garantito.

La difesa sentirebbe in tal modo di avere più chances ma il filtro deflattivo finirebbe nel dimenticatoio.

C’è infine un ultimo rischio, evidenziato da numerosi commentatori.

La nuova regola di cui si è fin qui parlato impone di rilasciare il nulla-osta solo ai procedimenti per i quali è ragionevole prevedere la condanna.

Il che è come dire che dovrebbero arrivare al dibattimento solo i giudizi nei quali l’accusa pubblica ha saputo costruire e presentare solidi argomenti a sostegno della sua tesi.

Si osserva che questa constatazione potrebbe implicare un rilevante condizionamento del giudice dibattimentale il quale ben difficilmente emetterebbe un verdetto assolutorio dopo che il suo predecessore ha attestato l’esistenza di una ragionevole previsione di condanna.

Direbbe Popper che questa tesi non è scientifica perché non è falsificabile, nel senso che non si possono fare esperimenti per verificare se è vera o falsa.

Una cosa è certa.

Con le regole attuali e l’interpretazione che se ne è data, arrivano al dibattimento miriadi di procedimenti che si sarebbe dovuto fermare prima.

Questa cospicua massa di “rumore” è tra le prime cause del collasso della nostra giustizia penale e dei suoi tempi indegni.

Qualcosa bisognava fare per evitare questo scempio di risorse pubbliche ma anche, e soprattutto, di vite e diritti umani, e il legislatore l’ha fatta.

La riforma non funzionerà per forza propria, nessuna riforma ha questa capacità.

Funzionerà se chi ne ha la responsabilità vorrà crederci e agirà di conseguenza.

Se così non fosse, l’inevitabile prezzo da pagare sarà accentuare la giustizia penale di scopo: si faranno solo i processi che interessa fare, magari per ragioni che con la giustizia hanno poco a che fare.