Consulenza neuroscientifica: è giusto negarla nelle indagini preliminari e rimandarla al giudice del dibattimento?

Alla fine di luglio di quest’anno AP è stata arrestata con l’accusa di omicidio aggravato per avere causato la morte per stenti di sua figlia, una bimba in tenerissima età, abbandonandola sola a casa per sei giorni.

Questa tristissima vicenda ha ovviamente campeggiato a lungo sui mass-media ma, come sempre accade, è stata progressivamente accantonata per lasciare spazio alle cronache più recenti.

Pochi giorni fa c’è stato però un aggiornamento (chi volesse saperne di più può servirsi di questo link): i difensori hanno chiesto per la seconda volta al GIP l’autorizzazione all’ingresso in carcere di un collegio di esperti che avrebbero visitato AP per una consulenza neuroscientifica ma la loro richiesta è stata respinta.

Il giudice competente, stando alle cronache di stampa, ha giustificato la sua decisione negativa affermando che l’indagata “anche dopo l’ingresso in carcere, come attestano le relazioni del Servizio di psichiatria interna, si è sempre dimostrata consapevole, orientata e adeguata, nonché in grado di iniziare un percorso, nei colloqui psicologici periodici di monitoraggio, di narrazione ed elaborazione del proprio vissuto affettivo ed emotivo”.

Ha inoltre sottolineato che la richiesta difensiva “non si aggancerebbe ad alcun elemento fattuale”, non risultando che AP abbia “una storia di disagio psichico” alle spalle.

Ha tuttavia riconosciuto che, data l’esistenza di “suggestive adesioni in campo accademico” all’ingresso del sapere neuroscientifico nel processo penale, non si può escludere “una possibile utilità della prova neuroscientifica come supporto del processo decisionale del giudice” ma proprio per questo dovrà essere lo stesso giudice a disporre una perizia di tale genere se lo riterrà necessario.

Inutile dire che i difensori non sono stati affatto contenti della decisione del GIP che considerano come un indebito ostacolo al diritto di difendersi provando.

La questione di cui si è parlato è connessa a vari temi di grande interesse.

Il primo e più importante è quello attinente al ruolo del GIP a fronte di una richiesta palesemente finalizzata all’acquisizione di elementi conoscitivi che potrebbero di seguito trasformarsi in prove o quantomeno impulsi verso percorsi probatori.

Ora, anche a prescindere dal disposto dell’art. 327-bis, commi 1 e 3, c.p.p., che attribuisce al difensore la facoltà di “svolgere investigazioni per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito” e di delegare a tal fine consulenti tecnici quando siano necessarie specifiche competenze, a me pare che nel ruolo affidato al giudice delle indagini preliminari non sia compreso quello di sindacare, e se del caso ostacolare, il percorso conoscitivo intrapreso dalla difesa.

Mi pare pure che sia altrettanto improprio attribuire valore fidefaciente a relazioni dei sanitari interni del carcere, con l’effetto bizzarro di addossare alla difesa l’impossibile compito di dimostrarne l’eventuale inattendibilità ma al tempo stesso negandole l’unico strumento per farlo, cioè un esame consulenziale dell’accusata.

Credo infine che demandare al solo giudice la valutazione di pertinenza di un accertamento peritale e negare alla difesa la possibilità di concorrere a quella valutazione sulla base di un accertamento di parte equivalga a indebolire il principio del contraddittorio.

Resta infine il tema della prova neuroscientifica.

È sempre più convinta, e lo ammette lo stesso GIP, l’adesione della comunità scientifica sulla capacità del sapere neuroscientifico di concorrere alla formazione della prova soprattutto allorché si debbano valutare, come nel caso di AP, condotte così distanti dal sentire comune da indurre a classificarle per ciò solo come frutto di una volizione patologica.

Ritengo positiva questa apertura. La scienza è un prodotto umano e risente delle imperfezioni umane ma rimane pur sempre uno dei migliori metodi finora escogitati per decifrare la complessità. Non ha senso esserle ostili.