Il diritto delle piccole cose: nota a Cass. pen., Sez. VII, sentenza n. 23198/2021, udienza del 19 maggio 2021 (di Vincenzo Giglio)

Questo post replica un articolo che ho scritto per il numero 3/2022 della rivista Percorsi Penali, appena pubblicata.

Ringrazio l’editore Filodiritto, e per esso l’avvocato Antonio Zama, di avermi concesso di pubblicarlo su questo blog.

1. Introduzione

Nel 1997 la scrittrice e attivista indiana Arundhati Roy pubblicò Il dio delle piccole cose[1].

Il libro diventò un caso editoriale, vendette un numero sbalorditivo di copie e fruttò all’autrice il premio letterario Booker Price, per il miglior testo in lingua inglese del 1997.

Tra le tante recensioni avute dall’opera, ci fu Arundhati Roy, il libro della vita di Antonio Stanca, reperibile a questo link.

Ne riporto un passaggio significativo: “le situazioni, le persone presentate tendono ad assumere il significato di segni, simboli di un destino ad esse preesistente e da  esse indipendente, divengono gli attori di un dramma che le supera, si trasformano nelle “piccole cose” di un universo composto da “grandi, imperscrutabili e impenetrabili cose”. Gli eventi narrati risultano perennemente divisi tra una dimensione reale, concreta ed una ideale, astratta che li percorre, li sovrasta rimanendo loro invisibile, inattingibile, identificandosi con essi e, tuttavia, lasciando supporre che avrebbero potuto avere altro corso. È l’idea delle infinite possibilità che la vita ha per mostrarsi, degli immensi aspetti che può assumere una vicenda, delle incalcolabili soluzioni che può avere ed è anche la constatazione che tra tanto ben poco spetta all’uomo, solo quel che vive, che gli accade, solo quanto il caso gli procura. Una serie di casi esterni alla volontà umana è la vita per la Roy, una condizione sempre possibile di modifiche poiché segue le linee di un progetto ad essa lontano ed oscuro. “È vero, le cose possono cambiare in un giorno”.

Persone assimilate a piccole cose che si agitano in un universo imperscrutabile che le sovrasta e nel quale sono ugualmente possibili stagnazioni e cambiamenti.

L’idea di fondo del libro mi suggerisce un’assonanza con la ben diversa situazione di chi, chiamato a rispondere di un’accusa e provando a contrastarla, entra in un universo simile a quello immaginato dalla Roy.

Su questa premessa, parlerò di una sentenza emessa l’anno scorso da una sezione penale della Corte di cassazione.

Piccola la vicenda di cui si è occupata la Corte, piccola l’attenzione che le ha riservato, piccola la decisione che l’ha conclusa.

2. Questione giuridica

Una donna è stata ritenuta responsabile in primo grado del delitto di bancarotta fraudolenta documentale e condannata ad una pena detentiva e alle pene accessorie fallimentari per la durata di dieci anni.

La decisione è stata confermata integralmente dalla Corte di appello competente.

Il difensore dell’interessata ha fatto ricorso per cassazione deducendo violazione di legge e vizi di motivazione derivanti dalla determinazione in misura fissa della durata delle pene accessorie.

3. Sentenza

Il ricorso è stato assegnato alla settima sezione della Corte di cassazione che lo ha deciso con la sentenza n. 23198/2021 emessa in esito all’udienza del 19 maggio 2021.

I giudici di legittimità hanno ritenuto manifestamente infondato e quindi inammissibile il ricorso poiché fondato su un indirizzo giurisprudenziale minoritario.

Ciò nonostante, hanno annullato d’ufficio la sentenza impugnata nella parte oggetto di ricorso, avendo constatato che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 222/2018, ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni»”.

Hanno infine chiarito che la quantificazione delle pene accessorie dovrà esser fatta sulla base del principio di diritto fissato dalla Sezioni unite penali nella sentenza n. 28910/2019 in questi termini: “Le pene accessorie previste dall’art. 216 legge fall., nel testo riformulato dalla sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018 della Corte Costituzionale, cosi come le altre pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen.» e non ai sensi, quindi, dell’art. 37 cod. pen.”.

Il collegio di legittimità ha conseguentemente annullato la sentenza impugnata in punto di durata delle pene accessorie previste dall’art. 216, ultimo comma, L. F., e rinviato alla Corte di appello per un nuovo esame della questione.

4. Commento

Spero che adesso sia più comprensibile la qualifica di piccolezza che ho attribuito alla vicenda.

Non si discuteva della responsabilità e neanche della pena principale, entrambe non contestate.

La questione era limitata alla durata delle pene accessorie conseguenti alla condanna per bancarotta fraudolenta documentale.

Si contendevano il campo due opposti orientamenti interpretativi.

Il primo, largamente prevalente, era nel senso che al quel tipo di condanna dovessero necessariamente seguire le pene accessorie (inabilitazione all’esercizio di un’impresa ed incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa) della durata fissa di dieci anni, secondo quanto stabilito dal citato art. 216, ultimo comma.

Il secondo, minoritario, propendeva invece per l’applicazione dell’art. 37 c.p. e quindi per la determinazione di una durata uguale a quella della pena principale concretamente inflitta, sia pure entro i limiti minimi e massimi fissati per ciascuna pena accessoria.

Questa seconda visione era stata di seguito completamente abbandonata, essendosi ritenuto che la sentenza n. 134/2012 della Corte costituzionale, la quale aveva dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento all’ultimo comma dell’art. 216, avesse quantomeno implicitamente confermato l’indirizzo maggioritario e precludesse ogni ulteriore disputa.

È quindi vera la premessa da cui parte la decisione qui commentata.

Resta tuttavia da capire se sia corretta la qualifica di manifesta infondatezza del ricorso che ne è stata la conseguenza più immediata.

Occorre rimarcare preliminarmente un dato di fatto.

Il ricorso è stato assegnato alla settima sezione penale della Corte di cassazione, la quale, come stabilito nel decreto del primo presidente della Suprema Corte del 6 maggio 2013, è competente per la definizione dei ricorsi per i quali il consigliere delegato all’esame preliminare, ai sensi dell’art. 610, comma 1,  c.p.p., abbia rilevato una causa di inammissibilità.

La chiamata in causa della settima sezione equivale dunque, se si volesse ancora una volta ricorrere ad un’immagine letteraria, alla cronaca di una morte annunciata, non necessariamente ma con elevata probabilità.

Chiarito questo non trascurabile dettaglio, è già l’ora di entrare nel vivo con i due interrogativi che mi sembrano cruciali.

Perché mai un ricorso fondato su un indirizzo minoritario o addirittura sepolto dal tempo dovrebbe essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza?

E perché mai un ricorso comunque ispirato dall’idea che “la fissità della sanzione accessoria contrasti con «il “volto costituzionale” dell’illecito penale»[2] dovrebbe essere cestinato per il sol fatto che quell’idea, coltivata un tempo, sia stata poi accantonata dopo una pronuncia della Consulta?

Non esistono ovviamente risposte giuste per definizione e quindi tali da eliminare ogni perplessità ma si può comunque contare su qualche argomento di non poco conto.

Il primo, scontato ma non per questo di minor valore, è di tipo formale.

Non esiste alcuna norma che consenta o imponga l’esito di inammissibilità per i ricorsi che propongano tesi interpretative mai prima esplorate o esplorate e scartate o esplorate e condivise solo da una sparuta minoranza.

È sì prevista (art. 606, comma 3, c.p.p.) la manifesta infondatezza dei motivi di impugnazione ma il legislatore si è guardato bene dall’includervi l’adesione a indirizzi interpretativi non sostenuti dalla maggioranza dei titolari del potere interpretativo.

Non avrebbe potuto farlo, del resto, perché se l’avesse fatto avrebbe introdotto una contraddizione di sistema, attribuendo una forza vincolante al precedente che è tradizionalmente estranea al nostro ordinamento e che solo di recente ed in modo limitato ha fatto capolino attraverso il comma 1-bis dell’art. 618 c.p.p. (innestato dalla L. 103/2017) il quale obbliga le sezioni ordinarie della Cassazione a rimettere gli atti alle Sezioni unite se non condividono un principio di diritto da queste enunciato.

La novella normativa ha l’evidente finalità di rafforzare il ruolo delle Sezioni unite e, per questa via, di aumentare il quantum di prevedibilità delle decisioni giudiziarie in ossequio al principio costituzionale di uguaglianza: dunque, una riforma di impatto limitato al circuito interno della Corte di legittimità (rapporto tra sezioni semplici e Sezioni unite) e non accompagnata da alcuna sanzione, quasi a sottolineare la prevalenza del dialogo sulla gerarchia.

Non può pertanto essere intesa come un allentamento del precetto, altrettanto costituzionale (art. 117, comma 1), che vuole i giudici soggetti soltanto alla legge né come causa, remota o prossima, di creazioni giurisprudenziali che attribuiscono al precedente una forza maggiore di quella che gli spetta.

Se quindi si vuole tentare una risposta al primo interrogativo, si dovrebbe affermare che ad essere inammissibile non è il ricorso fondato su un indirizzo interpretativo minoritario ma la decisione che lo destina all’oblio per questa ragione.

Resta la seconda domanda ed anche in questo caso la risposta può essere tentata sulla base di argomenti di non poco conto, entrambi connessi alle due sentenze della Consulta citate in precedenza.

Non è affatto vero che la sentenza n. 134/2012 abbia esaurito ogni possibile dibattito sulla costituzionalità della durata fissa, e in misura così elevata, delle pene accessorie previste dall’art. 216, ultimo comma, L.F. Tutt’altro.

In quella decisione, al contrario, la Corte affermò “l’opportunità che il legislatore ponga mano ad una riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolare con l’art. 27, terzo comma”.

Precisò tuttavia di non considerarsi legittimata agli interventi manipolativi richiesti dai giudici a quibus, compreso quello che avrebbe portato all’estensione applicativa dell’art. 37 c.p., perché “la soluzione prospettata è solo una tra quelle astrattamente ipotizzabili in caso di accoglimento della questione: infatti sarebbe anche possibile prevedere una pena accessoria predeterminata ma non in misura fissa (ad esempio da cinque a dieci anni) o una diversa articolazione delle pene accessorie in rapporto all’entità della pena detentiva. Risulta evidente che l’addizione normativa richiesta dai giudici a quibus non costituisce una soluzione costituzionalmente obbligata, ed eccede i poteri di intervento di questa Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore. Pertanto deve farsi applicazione del principio, più volte espresso, secondo il quale sono inammissibili le questioni di costituzionalità relative a materie riservate alla discrezionalità del legislatore e che si risolvono in una richiesta di pronuncia additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato”.

In sintesi: il problema c’era, un fondato sospetto di incostituzionalità c’era pure, ma molte erano le soluzioni possibili e scegliere quella più giusta spettava al legislatore e non alla Corte costituzionale.

Sei anni più tardi le cose cambiarono.

La sentenza n. 222/2018 riconobbe anzitutto che “La durata fissa delle pene accessorie previste dall’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare non appare, in linea di principio, compatibile con i principi costituzionali in materia di pena, e segnatamente con i principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio”.

Aggiunse che “le pene accessorie temporanee previste dalla disposizione censurata incidono in senso fortemente limitativo su una vasta gamma di diritti fondamentali del condannato, riducendo drasticamente la sua possibilità di esercitare attività lavorative per un arco temporale di dieci anni, destinati a decorrere – in forza dell’art. 139 cod. pen. – dopo l’integrale esecuzione della pena detentiva (la quale, a sua volta, potrebbe avere luogo molti anni dopo la commissione del fatto di reato)” e precisò ancora che “una durata fissa di dieci anni delle pene accessorie in questione non può ritenersi «ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato»” e che “Una simile rigidità applicativa non può che generare la possibilità di risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso – e dunque in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. – rispetto ai fatti di bancarotta fraudolenta meno gravi; e appare comunque distonica rispetto al menzionato principio dell’individualizzazione del trattamento sanzionatorio”.

Subito dopo la Consulta si pose il medesimo dilemma affrontato nella sentenza n. 134/2012.

Si chiese cioè se le spettasse porre rimedio alla riscontrata violazione di principi costituzionali e, a differenza della precedente decisione, diede una risposta positiva, affermando la necessità di una rimeditazione delle conclusioni raggiunte nel 2012, come riflesso dell’inerzia del legislatore da un lato e dell’evoluzione giurisprudenziale della stessa Consulta in materia di sindacato sulle misure delle pena dall’altro.

Si chiese poi come rimediare e, scartata la via dell’art. 37 c.p. che avrebbe comportato la sostituzione di un secondo e anch’esso inadeguato automatismo a quello messo da parte,  decise di adottare il sistema vigente per le fattispecie di bancarotta semplice (art. 217 L.F.) e ricorso abusivo al credito (art. 218 L.F.) che, pur prevedendo le stesse pene accessorie contemplate dall’art. 216, ultimo comma, consentono che la loro durata sia stabilita discrezionalmente dal giudice con il vincolo di non superare il limito massimo previsto dalla legge.

In sintesi anche qui: il problema continua ad esserci, il legislatore lo ha lasciato incancrenire, è ora di intervenire e si può farlo affidando al giudice un potere discrezionale.

Queste due decisioni, come si è detto, offrono buoni argomenti per rispondere alla domanda lasciata in sospeso.

No, non sembra affatto corretto dichiarare inammissibile un ricorso che chiede la cassazione di una decisione “costituzionalmente disorientata”, neanche se propone un rimedio riconosciuto inadeguato dalla Corte costituzionale.

La violazione era stata riconosciuta implicitamente fin dal 2012 ed esplicitamente dal 2018.

Il cambio di rotta è stato deciso dalla Consulta anche e soprattutto per la prolungata inerzia del legislatore che ha lasciato cadere nel nulla l’impulso offertogli nel 2012.

Entrambe queste condizioni (implicita indicazione di incostituzionalità e inerzia legislativa) erano ben conosciute in sede giurisdizionale e ogni giudice chiamato ad applicare la norma sospetta avrebbe potuto sollevare d’ufficio la questione di costituzionalità, così come in effetti hanno fatto la prima e la quinta sezione penale della Corte di cassazione e la Corte di appello di Bologna promuovendo il giudizio che ha portato alla sentenza del 2018.

Non si comprende a questo punto su quali fondamenta teoriche si possa giustificare la qualificazione di manifesta infondatezza, peraltro inutile visto l’annullamento con rinvio disposto d’ufficio, riservata al ricorso di un’imputata la cui pretesa giuridica era in linea con la giurisprudenza costituzionale.

5. Per finire

Si finisce da dove si è iniziato.

La vicenda era piccola anche se, a pensarci bene e come la stessa Corte costituzionale del 2018 ha voluto ricordare, pene accessorie che durano dieci anni e che limitano così fortemente le prerogative imprenditoriali hanno un impatto tutt’altro che trascurabile.

Chi decideva non si è certo soffuso su quella vicenda, pur avendo comunque trovato una soluzione decente.

Ciò che rimane è comunque un principio pericoloso: che chi diverge dalla vulgata prevalente, giusta o sbagliata che sia, è ricacciato indietro perché non vale la pena sentire cosa ha da dire.


[1] L’edizione italiana si deve a Guanda, nella collana Narratori della Fenice, con la traduzione di Chiara Gabutti.

[2] L’espressione è tratta testualmente dal paragrafo n. 3 della citata sentenza n. 222/2018 della Consulta, laddove l’estensore richiama i termini del conflitto interpretativo sulla durata delle pene accessorie fallimentari.