Il giudice può fare domande suggestive? Forse sì, forse no, ma decisamente meglio no (di Vincenzo Giglio e Riccardo Radi)

Una recente decisione della Corte di cassazione, precisamente la sentenza n. 24873/2022 emessa dalla quinta sezione penale in esito all’udienza del 25 febbraio 2022, ha affermato cheil divieto di porre domande suggestive nell’esame testimoniale non opera con riguardo al giudice il quale, agendo in un’ottica di terzietà, può rivolgere al testimone tutte le domande ritenute utili a fornire un contributo per l’accertamento della verità (Sez. 3, n. 21627 del 15/04/2015, Rv. 263790; conformi Rv. 240261 e Rv. 260899) ad esclusione di quelle nocive, in relazione alle quali la relativa eccezione deve essere proposta nel corso dell’acquisizione dell’atto istruttorio e non può essere sollevata per la prima volta con l’atto d’impugnazione (Sez. 1, n.44223 del 17/09/2014, Rv. 260899; conformi: Rv. 232385; Rv. 242255; Rv. 249890)” ed ha chiarito ulteriormente che, laddove l’esame del giudice sia difforme dalle regole che disciplinano l’assunzione della prova dichiarativa, “ciò non dà luogo a nullità, non essendo riconducibile alle previsioni di cui all’art. 178 cod. pen., né ad inutilizzabilità, trattandosi di prova assunta non in violazione di divieti posti dalla legge, ma con modalità diverse da quelle prescritte (Sez. 6, n. 28247 del 30/01/2013, Rv. 257026)”.

L’estensore si è premurato di specificare che il collegio decidente ha aderito a questo indirizzo il che significa non solo che lo stesso è preesistente (come in effetti è dimostrato dai plurimi precedenti conformi richiamati) ma anche che esiste un orientamento contrario.

Ne è espressione la sentenza n. 15331/2020 (udienza del 6 febbraio 2020) emessa dalla quarta sezione penale, peraltro diffusa e commentata a suo tempo da numerose riviste giuridiche on-line (si rinvia, al riguardo, alle interessanti riflessioni di Novella Galantini, Il divieto di domande suggestive è imposto anche al giudice, e di Guglielmo Gulotta, Divieto di domande suggestive anche per il giudice, pubblicate entrambe su Sistema Penale, rispettivamente l’1 giugno e l’1 luglio 2020).

Nella vicenda processuale oggetto di ricorso la Cassazione aveva annullato una sentenza di condanna per violenza sessuale, demandando al giudice del rinvio la rinnovazione della prova nella parte attinente alla parte offesa.

A conclusione del giudizio di rinvio la Corte territoriale aveva confermato la sentenza di condanna.

La difesa dell’imputato ha ricorso per cassazione, deducendo i vizi di erronea applicazione della legge penale e di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

In particolare, per ciò che qui interessa, il difensore ha censurato le modalità di assunzione della testimonianza della parte offesa poiché sarebbero consistite non nell’esame e controesame ma in domande apertamente suggestive poste direttamente dal consigliere relatore.

Il collegio decidente ha inteso anzitutto richiamare il quadro normativo pertinente, in questi termini: “La disciplina dell’esame dei testimoni costituisce piena espressione della scelta, operata dal legislatore del 1988, per un processo di parti. L’art. 498 cod. proc. pen. fissa la regola principale per la quale l’escussione avviene mediante domande rivolte direttamente al testimone dal pubblico ministero e dai difensori, senza il filtro del giudice, seguendo cadenze predeterminate. L’esame incrociato si articola nei tre momenti dell’esame, del controesame e del riesame. È appena il caso di ricordare che l’opzione del legislatore in favore dell’esame incrociato, quale modalità tipica di escussione della fonte orale, sottratta, di regola, al monopolio del giudice, trova un richiamo sia nell’art. 6, par. 3, lett. d), C.E.D.U. e nell’art. 14, par. 3, lett. e), del Patto internazionale sui diritti civili e politici, sia nell’art. 111, commi 3 e 4, Cost. L’art. 506, comma 2, cod. proc. pen. […] prevede il potere del presidente di rivolgere domande ai testimoni […] solo dopo l’esame e il controesame. La puntualizzazione che le domande possano essere rivolte solo dopo l’esame e il controesame è stata considerata opportuna, posto che un intervento officioso del giudice con finalità chiarificatrice dei fatti oggetto del processo e in funzione surrogatoria rispetto alle parti, in tanto trova giustificazione in un processo tendenzialmente accusatorio, in quanto non sia stato possibile ottenere i necessari chiarimenti mediante le domande che hanno posto le parti”.

È seguita la valutazione dell’operato del giudice del rinvio: “le modalità di assunzione della testimonianza, condotta in prima battuta e in gran parte dal consigliere relatore, e il contenuto delle domande da questi rivolte alla persona offesa ne hanno gravemente pregiudicato l’attendibilità, di talché la motivazione fondata sulle dichiarazioni rese da costei – che rivestono, all’evidenza un ruolo centrale nell’odierno procedimento […] appare radicalmente viziata sotto il profilo della tenuta logica della sentenza impugnata”.

Si è resa necessaria a questo punto un’ulteriore puntualizzazione normativa: “L’art. 499 cod. proc. pen. […] indica i criteri cui il giudice deve attenersi nell’ammettere o vietare le domande delle parti, il giudice, pertanto, deve vietare in modo assoluto le domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte (comma 2); vietare alla parte che ha addotto un teste o che ha un interesse comune con lo stesso di formulare le domande in modo da suggerirgli le risposte (comma 3); assicurare durante l’esame la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni (comma 6). Il divieto di formulare domande che possano nuocere alla sincerità delle risposte, nel duplice senso delle domande “suggestive” – nel significato che il termine assume nel linguaggio giudiziario di domande che tendono a suggerire la risposta al teste ovvero forniscono le informazioni necessarie per rispondere secondo quanto desiderato dall’esaminatore, anche attraverso una semplice conferma – e delle domande “nocive” – finalizzate a manipolare il teste, fuorviandone la memoria, poiché gli forniscono informazioni errate e falsi presupposti tali da minare la stessa genuinità della risposta – è espressamente previsto con riferimento alla parte che ha chiesto la citazione del teste, in quanto tale parte è ritenuta dal legislatore interessata a suggerire al teste risposte utili per la sua difesa. A maggior ragione, detto divieto deve applicarsi al giudice al quale spetta il compito di assicurare, in ogni caso, la genuinità delle risposte ai sensi del comma 6 della medesima disposizione (Sez. III, n. 7373 del 18.01.2012, B, Rv. 252134; Sez. III, n. 25712 del 11.05.2011, M, Rv. 250615)”.

Completata la ricognizione normativa, l’estensore ha preso in rassegna un florilegio delle domande poste alla teste dal consigliere relatore e per ognuna di esse ha espresso la propria valutazione.

Le riportiamo integralmente, ritenendole essenziali per la migliore intelligenza della decisione di annullamento. Si identificheranno col neretto le domande del componente della Corte di appello e col corsivo le valutazioni dei giudici di legittimità.

L’ha conosciuto, poi lui vi portava ogni tanto a scuola con la macchina”.

La domanda è suggestiva perché serve surrettiziamente a suggerire alla testimone che l’episodio di cui si tratta è avvenuto in macchina”.

E poi, da lì, ci sono stati determinati rapporti tra di voi”.

La domanda, posta in forma assertiva – tale, cioè, da perdere il connotato interrogativo, attribuendo al suo contenuto un carattere di certezza – è nociva poiché palesemente manipolatoria rispetto al ricordo della testimone, cui fornisce falsi presupposti”.

Il fatto materiale lo possiamo dare per pacifico”.

Si tratta, all’evidenza, di assunto nocivo perché dà per scontato il fatto oggetto della testimonianza, quello, cioè, che l’esame della persona offesa è proprio finalizzato a dimostrare”.

Lei ricorda che aveva denunciato che a un certo punto questa persona, un giorno eravate in macchina così, aveva preso la sua mano … e se l’era messa sulle parti intime”.

Questa è una domanda suggestiva, la quale contiene la risposta che si intende suggerire e in cui il giudice ripropone il fatto come assodato. Domande e asserzione, queste, cui la G. risponde semplicemente annuendo”.

Ecco, se lei ricorda questo episodio, ricorda anche se ha avuto una reazione, prima, durante o dopo questo gesto?

La domanda è suggestiva perché tende a suggerire una risposta alla teste, che risponde “No, della reazione non mi ricordo. So che me l’ha tenuta lì [la mano sui genitali dell’uomo] per un po’… e poi io ho cercato di levarla e dopo un po’ lui l’ha staccata”. Il giudice continua chiedendole se avesse cercato di levarla subito la mano e, alla risposta negativa della donna, afferma interrogativamente:”.

Quindi come se lei avesse accettato, in quel momento, questo gesto”.

La domanda è nociva perché volta a forzare la risposta della persona offesa la quale afferma “No, io ho provato a tirarmi indietro”.

L’esito, l’unico possibile, è stato l’ulteriore annullamento con rinvio ad una diversa sezione della Corte territoriale per un nuovo giudizio.

Desideriamo sottolineare, sebbene si tratti di un fatto scontato, di essere perfettamente consapevoli della gravità dell’accusa e della delicatezza della posizione della parte offesa e del forte disagio che le è derivato dalla necessità di dover ripercorrere più volte in ambienti giudiziari la vicenda vissuta.

Non ci può essere quindi alcun compiacimento nel suo commento.

Consideriamo tuttavia che un esame condotto nel modo che si è visto, oltre a comportare le plurime violazioni ravvisate dalla sentenza della quarta sezione penale, si risolva, sia pure involontariamente, nell’inflizione di un ulteriore danno alla vittima presunta, forzando il senso delle sue dichiarazioni e ponendo le condizioni per un ulteriore passaggio in aula che rinnova inevitabilmente il disagio del ricordo.

Considerazioni finali

Le due decisioni di legittimità di cui si è parlato definiscono in modi differenti i limiti cui è sottoposto il giudice che concorre a formare la prova dichiarativa con le sue domande, particolarmente in riferimento alle domande suggestive.

Sono possibili per i giudici della quinta sezione, non lo sono per quelli della quarta.

È degno di nota che entrambi gli indirizzi siano giustificati con la terzietà del giudice e il suo compito di fare emergere la verità.

Si scontrano allora due diverse filosofie: quella per cui la ricerca della verità coinvolge a pieno titolo il giudice e a tal fine, quantomeno per le prove dichiarative, gli assegna un complesso di poteri che prescinde dalla tripartizione tra esame, controesame e riesame; quella di chi ritiene che sia verità solo quella ottenuta nel pieno rispetto delle regole del contraddittorio e della natura tendenzialmente accusatoria del rito penale.

A noi pare che la seconda opzione sia l’unica praticabile a legislazione vigente (interna e sovranazionale) per tutte le argomentazioni svolte con inusuale chiarezza dalla sentenza del 2020 alle quali sarebbe davvero presuntuoso aggiungere alcunché. Osserviamo infine che quando le regole diventano elastiche il giudice può fare quel tipo di danni che la sentenza appena citata ha così bene messo in evidenza e questa eventualità non dovrebbe piacere a nessuno.