Delegittimare un magistrato con post su Facebook, missive e volantini è stalking giudiziario (articolo di Riccardo Radi)

La quinta sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza numero 1813/2022 ha stabilito che è configurabile lo stalking giudiziario nella condotta di diffusione di volantini, missive e post attraverso mezzi telematici dal contenuto diffamatorio in quanto hanno procurato uno stato di “ansia  e turbamento determinato nella persona offesa dalla costante paura di essere vittima di attività denigratoria, tale da indurla a compiere frequenti ricerche su internet per verificare l’eventuale pubblicazione di ulteriori contenuti diffamatori”.

La sentenza ha confermato la condanna di AB per il delitto previsto dall’art. 612-bis cod. pen. (atti persecutori) per aver: “con condotte reiterate, ed in particolare con attività di volantinaggio, missive inviate a varie autorità, insinuazioni pubbliche anche attraverso mezzi telematici ed una continua opera di petulante delegittimazione nei confronti di LG, magistrato e pubblico ufficiale accusata di corruzione, connivenze e altre scelleratezze, minacciava e molestava la medesima in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia ed ingenerando il fondato timore per la propria incolumità”.

Nel ricorso in cassazione, dichiarato inammissibile dal collegio di legittimità, la difesa dell’imputato lamenta l’insussistenza dei presupposti applicativi del reato contestato, in termini di “stalking giudiziario”, per essere le condotte ascritte inidonee a configurare gli eventi tipici previsti dalla fattispecie criminosa, anche alla luce della inattendibilità delle dichiarazioni della parte civile.

A suo avviso, AB ha diffuso con volantini e video le sue lagnanze contro la dott.ssa LG, con condotte che possono integrare la diffamazione, ma non il reato di stalking, non essendo state accompagnate da atti di violenza, pedinamento o molestie fisiche.

I giudici di legittimità hanno respinto le deduzioni difensive in ordine all’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, rilevando che le regole dettate dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa.

Queste possono essere infatti legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (si confrontino SU, sentenza n. 41461/2012, Rv. 253214, che, in motivazione, ha altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi; nonché Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 21135/2019, Rv. 275312: “In tema di testimonianza, le dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile possono essere poste, anche da sole, a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella richiesta per la valutazione delle dichiarazioni di altri testimoni, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto e, qualora risulti opportuna l’acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l’intento calunnia tono del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione“).

Pertanto, al collegio è apparsa assertiva e manifestamente infondata l’affermazione di intrinseca inattendibilità ex se delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e la pretesa di riscontri.

Quanto poi alle doglianze concernenti la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 612-bis cod. pen., i giudici di legittimità rilevano che i fatti attribuiti ad AB consistiti secondo la prospettazione difensiva “in un mero esercizio delle facoltà connesse alla tutela giudiziaria dei propri diritti”, svolta mediante un’attività di ‘volantinaggio’”, lungi dall’integrare un mero esercizio, sia pur ‘vivace’, delle facoltà connesse alla tutela giudiziaria dei propri diritti, che avrebbe potuto essere perseguita mediante i molteplici strumenti difensivi e di denuncia, anche mediatica, consentiti, purché nei limiti previsti dall’ordinamento (anche penale) – sono invece consistiti in una serie protratta e reiterata di condotte diffamatorie e moleste – mediante affissione di manifesti e volantini in ben due città, mediante una video-intervista divulgata su Youtube, e perciò dotata di una spiccata diffusività dell’offesa alla reputazione della persona offesa, nonché nella pubblicazione di un libro nel 2013 dal titolo “Toghe corrotte” e di numerosi post diffamatori sul social network Facebook -, ma anche di minacce, quale quella rivolta con la missiva inviata al dott. Nordio nel marzo 2014, allorquando AB scriveva “ormai non ho più nulla da perdere, se non avrò giustizia come prevede il codice penale mi farò giustizia da solo, verso le persone che mi hanno truffato“.

Prescindendo, dunque, da una non consentita parcellizzazione cognitiva e valutativa delle singole condotte, è emerso lo stillicidio persecutorio delle condotte poste in essere dall’imputato nel corso della sua ‘campagna’ mediatica e giudiziaria contro la persona offesa.

In ordine alle condotte rilevanti quali molestie, va rammentato che il delitto di atti persecutori, avendo oggetto giuridico diverso, può concorrere con quello di diffamazione anche quando la condotta diffamatoria costituisce una delle molestie costitutive del reato previsto dall’art. 612 bis cod. pen. (Sez. V, sentenza n. 51718/2014, Rv. 262635; in senso analogo, Sez. V, sentenza n. 29826/2015, Rv. 264459, secondo cui “integra il delitto di atti persecutori, in danno di una coppia di coniugi, la redazione, l’invio agli stessi (nella specie, mediante lettere e messaggi sms), nonché la reiterata diffusione sul luogo di lavoro delle persone offese e presso la scuola frequentata dai figli, di scritti diffamatori concernenti i rapporti extraconiugali dei predetti, qualora tali molestie cagionano – per l’ampiezza, durata e carica spregiativa della condotta criminosa – un grave e perdurante stato d’ansia nelle persone offese, correlato all’aggravamento e consolidamento, in ambito lavorativo oltre che familiare, della lesione della loro riservatezza e della manipolazione delle rispettive identità personali nel contesto familiare e lavorativo“).

Sulla idoneità delle minacce, benché non pronunciate alla presenza della persona offesa, ad integrare il reato, va rammentato che, ai fini della configurabilità del delitto di minaccia, non è necessario che le espressioni intimidatorie siano pronunciate in presenza della persona offesa, potendo quest’ultima venirne a conoscenza anche attraverso altri, in un contesto dal quale possa desumersi la volontà dell’agente di produrre l’effetto intimidatorio (Sez. V, sentenza n. 38387/2017, Rv. 271202); nel caso di specie, le espressioni intimidatorie erano contenute in una missiva inviata ad un magistrato, affinché indagasse sulle condotte attribuite dall’odierno ricorrente alla dott.ssa LG., e che, dunque, sarebbero entrate nella sfera di conoscibilità della medesima (in tal senso, altresì, Sez. V, sentenza n. 8919/2021, Rv. 280497: “Integra il delitto di atti persecutori la reiterata ed assillante comunicazione di messaggi di contenuto persecutorio, ingiurioso o minatorio, oggettivamente irridenti ed enfatizzanti la patologia della persona offesa, diretta a plurimi destinatari ad essa legati da un rapporto qualificato di vicinanza, ove l’agente agisca nella ragionevole convinzione che la vittima ne venga informata e nella consapevolezza, della idoneità del proprio comportamento abituale a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice“).

Con riferimento agli eventi del reato di atti persecutori, la sentenza impugnata ha compiutamente motivato in ordine allo stato di ansia e turbamento determinato nella persona offesa dalla costante paura di essere vittima di attività denigratoria, tale da indurla a compiere frequenti ricerche su internet per verificare l’eventuale pubblicazione di ulteriori contenuti diffamatori, e in ordine al mutamento delle abitudini di vita, integrato dalla scelta di interrompere i viaggi nelle città di B. e di V., pur dopo il trasferimento a P., ove risiedevano parenti e amici della persona offesa.