Una seconda chance non si nega a nessuno: dalle carceri alle indagini preliminari (di Vincenzo Giglio)

È stato detto (da Voltaire e poi da Dostoevskij) che la civiltà di un Paese si misura dalle sue carceri.

Stando così le cose, per l’Italia la partita è già persa per tutte le ragioni che istituzioni nazionali e internazionali, Corti di giustizia, osservatori e associazioni autorevoli e la stampa espongono inascoltate da decenni e che sarebbe inutile ripetere.

Ma tutti hanno diritto a una seconda occasione, anche gli Stati.

Siccome qui si parla di diritto penale sostanziale e processuale e delle libertà, delle garanzie, dei diritti e dei doveri di chi ne subisce gli effetti, la seconda occasione è concessa proprio in questo ambito.

E poiché è andata persa quella che aveva a che fare con l’esecuzione della pena, cioè ciò che succede dopo che un imputato ha giocato e perso nel giudizio, pare giusto il confronto con ciò che succede prima del giudizio stesso, precisamente nella fase delle indagini preliminari.

Se infatti si constatasse che chi subisce un’accusa è trattato con correttezza e può difendersi adeguatamente fin dall’avvio del procedimento e può farlo perché sono rispettate e valorizzate le prerogative e le facoltà riconosciutegli dalla legge, allora si dovrebbe ammettere che la giustizia italiana, e prima di essa il legislatore, fanno la cosa giusta e curano tutto quanto serve per chiudere subito quello che va chiuso, agevolare futuri dibattimenti partecipati e consapevoli e favorire sentenze effettivamente corrispondenti alla verità processuale.

Se invece si verificasse che tutto questo non avviene, allora si dovrebbe necessariamente concludere che il penale e tutto ciò che ne fa parte sono come la neve e la grandine che scendono dal cielo e colpiscono tutti senza spiegazione e senza difesa.

È arrivato il momento di dire che questa verifica è già stata fatta da Cristiana Valentini che l’ha riversata in una brillante riflessione significativamente intitolata “The untouchables: la fase delle indagini preliminari, l’ufficio del pubblico ministero e i loro misteri, pubblicata due giorni fa su Archivio Penale e reperibile a questo link.

Questo è l’abstract esplicativo: “Allo stato quella della fase d’indagine preliminare è un’immagine priva di sbavature: l’abnorme quantità di poteri cumulati nelle mani del pubblico ministero finisce con il caratterizzare l’andamento successivo del procedimento, influenzandolo funditus, determinandone l’emersione o l’affossamento nell’incipit, influenzandone le sorti tramite la raccolta del materiale investigativo, su cui influisce nell’an, nel quantum e nella direzionalità dimostrativa; chiedendo l’archiviazione o esercitando l’azione in un sostanziale solipsismo che esclude effettive verifiche, il tutto consumando non poca parte dei tempi del procedimento penale e soprattutto vasti margini del diritto alla prova della difesa, ma anche della vittima. Un potere del pubblico ministero di tale portata da annichilire ogni possibilità (effettiva) di tutela delle posizioni giuridiche soggettive coinvolte: dallo status libertatis, alla possibilità per la difesa di esercitare il diritto alla prova, per finire con le posizioni giuridiche soggettive pertinenti pure alle vittime. La Riforma Cartabia tenta rimedi in concreto inidonei a porre rimedio a questa parte della legislazione di rito penale.”.

E questo è l’inizio del paragrafo finale, denominato con l’unica parola “Abuso” che viene ossessivamente ripetuta di seguito: “E’ di abuso che parliamo, trattando il tema di cui qui si discute, non d’altro. Abuso dei poteri del pubblico ministero (che sarebbero poteri, ma solo perché sono doveri: il p.m. può perché deve); abuso del processo e abuso nel processo che nel dettaglio diventa abuso nella gestione delle iscrizioni e dunque nel timing del processo, ma anche del “modo” del processo, quando si pensi alle istruttorie occulte condotte grazie all’iscrizione a modello 45; ed è abuso di potere l’omissione di indagini a 360 gradi, che spesso conduce a quell’altro abuso –del processo in sé- che è l’esercizio apparente dell’azione penale; ancora, abuso del potere/dovere di chiedere l’archiviazione, in assenza delle dovute indagini. Un’enorme mole di abusi –talvolta persino di diretta rilevanza come fattispecie penali- che circola incontrollata nel nostro sistema penale, perché il pubblico ministero è come un personaggio di The untouchables, intoccabile, periglioso e remoto sulle alture della sua posizione, conferitagli dal legislatore e confermata da quest’ultima avventura riformistica, pervasa dal sussurro di sottofondo per cui lui no, non si tocca. Un modulo di pensiero, questo, che echeggia il vecchio fraseggio della Cassazione d’antan, quando indecorosamente recitava che il pubblico ministero è investito di «potere di supremazia» sull’imputato. Non è compito di questo scritto verificare se il termine “abuso” si attagli o meno alla raffigurazione sin qui condotta; esistono opere accorte che –ben prima di oggi- hanno asseverato con dovizia di argomenti che effettivamente quelle elencate, e molte altre, rientrano a pieno titolo nel concetto di abuso. Chi scrive ritiene che esista un unico modo per rimediare un siffatto scenario, ed è quello di assicurare in primis la trasparenza dell’operato del pubblico ministero e delle indagini preliminari e, in secondo luogo, una reale giustiziabilità delle posizioni giuridiche soggettive coinvolte, che consenta ad esse di cessare di essere “diritti di carta”. La trasparenza di questo settore dello Stato è un’esigenza vitale, cui non si può più rinunziare, per nessuna ragione. Rinunciarvi significa ammettere che, come Stato di diritto, l’Italia è ampiamente recessiva, e del resto è quel che segnala l’Europa, con moniti densi di allarme, ripetuti negli anni”.

Invito a leggere questa riflessione che è colta, lucida e impeccabilmente argomentata ed offre un autorevole punto di vista. E nel frattempo, concordando con l’Autrice, ho l’impressione che anche la seconda chance sia andata sprecata.