«Motivi della decisione»: «dall’istruttoria è emersa la responsabilità dell’imputato. Le dichiarazioni dei testi e la documentazione in atti (sopra elencata) hanno dato contezza dei fatti illeciti contestati».
Questa frase è bastata ad un tribunale per giustificare la condanna di un imputato.
Il difensore del malcapitato ha fatto ricorso per cassazione e la prima sezione penale della Suprema Corte (sentenza n. 30306/2022, udienza del 21 luglio 2022) lo ha accolto poiché «La motivazione della sentenza è sprovvista dei requisiti minimi per rendere comprensibile la vicenda contestata e l’iter logico seguito dal giudice, in quanto si snoda su argomentazioni del tutto astratte, illustrando in termini generali e manualistici il reato di cui all’art. 660 cod. pen., senza alcun riferimento al caso concreto sottoposto alla cognizione del giudice, ad eccezione dell’incipit [quello riportato in apertura, NdA] Argomentare all’evidenza insufficiente a rendere ragione della decisione di condanna, così da connotare la motivazione come apparente. Ne consegue la necessità di annullare detta sentenza, con rinvio al giudice monocratico del Tribunale di …, in diversa persona fisica, affinché renda una decisione motivata nei termini richiesti dall’art. 111, comma 6, Cost. e dall’art. 546 cod. proc. pen.».
Che la motivazione sia un obbligo, è reso palese non solo dall’art. 546 citato ma anche, esplicitamente, dall’art. 111, comma 6, Cost. e, implicitamente ma non meno chiaramente, dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
Quali parametri debba rispettare la motivazione per essere coerente lo chiariscono molteplici decisioni del giudice di legittimità.
Così, ad esempio, secondo Cass. pen., sez. V, sentenza 28667/2022, «L’obbligo motivazionale di cui all’art. 546 può dirsi correttamente assolto soltanto se le prove sulle quali si è basata una sentenza di condanna (o di assoluzione, ferma la differenza derivante dalla diversa incidenza del canone valutativo dell’oltre ogni ragionevole dubbio dettato dall’art. 533) siano state non soltanto indicate ma anche e soprattutto valutate nei loro risultati in termini di convincimento del giudice, il quale è tenuto a dichiarare e rendere leggibili, altresì, i criteri di valutazione adottati: tutto al fine di rendere comprensibile, ai soggetti coinvolti ed a quelli ai quali spetta il controllo sulla correttezza della decisione assunta, la base fattuale del ragionamento del giudice. In tal senso, l’onere di valutazione dei mezzi istruttori e di esposizione dei passaggi logici che fondano il convincimento del giudice non può essere un “adempimento formale”, soddisfatto, ad esempio, dalla mera trascrizione delle dichiarazioni testimoniali, non accompagnata da una riconsiderazione critica di esse».
Ma a che serve davvero la motivazione?
In fondo – si potrebbe obiettare – chi meglio di un giudice terzo ed equidistante dalle parti potrebbe garantire la correttezza della decisione di un caso giudiziario e renderla la perfetta sintesi degli interessi in gioco?
E, anche prescindendo da questo, chi l’ha detto che le sentenze siano migliori per il solo fatto che devono essere motivate?
A questi legittimi interrogativi si deve rispondere in parte in modo empirico e in parte ricorrendo a principi di portata generale, validi ben oltre lo stretto ambito giudiziario.
La realtà dimostra, talvolta drammaticamente, che, al pari di ogni altra attività umana, la funzione giudiziaria non è affatto esente da errori, anche clamorosi, anche tali talvolta da contraddire l’idea del giudice come detentore fisiologico di saggezza ed equilibrio e capacità di valutazione critica degli elementi conoscitivi sui quali è chiamato a fondare la sua decisione.
La motivazione si configura allora come strumento di controllo e spia di eventuali anomalie del percorso seguito dal giudice per dare la sua risposta di giustizia. Dunque, uno strumento che viene consegnato alle parti per controllare l’operato del giudice e, ove ve ne siano le condizioni, per censurare quell’operato secondo le possibilità loro offerte dall’ordinamento e proporne la revisione ad un altro giudice che, a sua volta, disporrà della stessa materia prima per valutare le censure.
Ma c’è poi un’altra e non meno importante finalità ed ha a che fare con l’accettabilità della decisione.
Chiarisce la Corte EDU nella controversia Taxquet c. Belgio, n. 906/05, 16 novembre 2010, § 91 che «la motivazione è finalizzata soprattutto a dimostrare alle parti che sono state ascoltate e, quindi, a contribuire a una migliore accettazione della decisione».
Questa semplice frase esprime l’ampiezza, ben maggiore di quella nazionale, dello sguardo sulla giurisdizione dei giudici europei dei diritti umani.
Ci dice che le sentenze non solo soltanto atti del giudice e non esauriscono la loro funzione nell’interlocuzione tra uffici giudiziari.
Esse devono invece essere rivolte ad una cerchia più ampia che vede in prima fila le parti alle quali occorre garantire la certezza, proprio attraverso la motivazione, che le loro ragioni sono state ascoltate e prese in considerazione perché così acquistano un’autorevolezza e una credibilità di cui altrimenti sarebbero prive.
E, sebbene la Corte EDU non ne faccia menzione, quella cerchia è ancora più ampia e comprende l’intera comunità nel cui nome qualunque giudice rende giustizia.
Solo in tal modo le sentenze cessano di essere il frutto di riti esoterici e diventano atti coerenti allo Stato di diritto.
