Il 28 ottobre 2021 la prima sezione della Corte europea dei diritti umani (Corte EDU) ha emesso la sentenza Succi e altri c. Italia.
La questione proposta alla Corte EDU
La Corte si è pronunciata su tre distinti ricorsi che denunciavano la violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (CEDU) sotto il profilo del diritto di accesso ad un tribunale da parte della Corte di cassazione, per avere quest’ultima dichiarato inammissibili i rispettivi ricorsi per cassazione in base a ragioni diverse per ciascun caso ma tutte riconducibili al cd. “principio di autosufficienza”, il quale, secondo i ricorrenti, sarebbe stato applicato dalla Corte di cassazione italiana in modo eccessivamente formalistico nel valutare i criteri richiesti per la redazione dei ricorsi.
Gli argomenti usati in sentenza
La Corte EDU ha così argomentato:
a) In linea generale ed astratta il principio di autosufficienza del ricorso dinanzi alla Corte di cassazione italiana persegue un fine legittimo, in quanto è destinato a semplificare l’attività del giudice di legittimità e allo stesso tempo a garantire la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione nomofilattica della Corte (§§ 74-75).
b) Nell’applicazione concreta, tuttavia, tale principio deve rispondere ad un criterio di proporzionalità della restrizione rispetto allo scopo, sicché non può giustificare una interpretazione troppo formale delle limitazioni imposte ai ricorsi, al punto da trasformarsi in uno strumento per limitare il diritto di accesso ad un organo giudiziario in modo o in misura tale da incidere sulla sostanza stessa di tale diritto (§ 81).
c) L’applicazione da parte della Corte di cassazione italiana del principio dell’autosufficienza del ricorso rivela una tendenza a concentrarsi su aspetti formali esorbitanti rispetto alla legittimità dello scopo, in particolare “per quanto riguarda l’obbligo di trascrivere integralmente i documenti inclusi nei motivi di ricorso e il requisito della prevedibilità della restrizione dell’accesso alla Corte” (§ 82)”.
La decisione
Sulla base di questi argomenti, la Corte EDU ha accolto uno dei tre ricorsi, ritenendo che sia affetta da eccessivo formalismo, e pertanto violi l’art. 6 § 1 CEDU, un’applicazione del principio di autosufficienza che porti alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso qualora la sua lettura, con l’aiuto dei riferimenti ai passaggi della sentenza del giudice di appello e ai documenti rilevanti citati nel ricorso, permetta di comprendere l’oggetto e lo svolgimento del procedimento nei gradi di merito, nonché la portata dei motivi svolti, sia per quanto riguarda il loro fondamento giuridico (i.e.: il tipo di censura proposta fra quelle previste dall’articolo 360 del c.p.c.) sia il loro contenuto.
Gli ulteriori chiarimenti
I giudici europei, rispondendo ad un argomento difensivo prospettato dal Governo italiano in ordine alla esigenza di far fronte all’imponente arretrato che grava sulla Corte di cassazione, hanno chiarito che, anche a fronte di un carico di lavoro suscettibile di causare difficoltà nel funzionamento ordinario del trattamento dei ricorsi, deve comunque ritenersi troppo formalista ogni interpretazione che, sviando dallo scopo legittimo sopra individuato, in realtà persegua il (diverso) scopo di limitare il diritto di accesso alla giustizia in modo tale o in misura tale da incidere sulla sostanza stessa di tale diritto”.
Hanno inoltre fornito altri importanti chiarimenti: 1) l’autosufficienza va valutata caso per caso nel senso che l’esame sulla ammissibilità del ricorso non può fondarsi sulla mera e “seriale” applicazione di regole e principi già elaborati, dovendo al contrario essere condotto caso per caso, poiché ogni ricorso ha la sua specificità; 2) occorre valorizzare il “right of access to a court” ricordando che le regole procedurali che limitano l’ammissibilità del ricorso devono essere interpretate e applicate nel rispetto del canone della proporzionalità, vale a dire prediligendo soluzioni orientate a permettere al processo di giungere al suo esito naturale tutte le volte in cui, prescindendo dal rigore formalistico, il motivo sia in comunque in grado di assicurare il raggiungimento dello scopo suo proprio, che è quello di consentire al giudice di legittimità di comprendere l’oggetto e lo svolgimento della controversia nei gradi di merito, così come il tipo di censura che viene mossa ed il suo contenuto specifico, con l’ausilio degli atti e dei documenti opportunamente indicati e con i riferimenti necessari per una loro agevole reperibilità; 3) nessuna norma del codice di rito enuncia espressamente il concetto di “autosufficienza” tra i requisiti di ammissibilità del ricorso per cassazione. Il principio, invero, ha origini prettamente giurisprudenziali.
La relazione tematica n. 116
Il 30 novembre 2021 l’ufficio del massimario della Corte di cassazione ha pubblicato la relazione tematica n. 116 che pone a confronto i principi affermati dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Succi ed altri c. Italia del 28 ottobre 2021 e l’attuale giurisprudenza nazionale di legittimità. Non sfugge la straordinaria tempestività dell’analisi del Massimario, venuta alla luce a distanza di un solo mese dalla sentenza. È certo un indizio dell’efficienza dell’ufficio ma potrebbe aver concorso anche una qualche preoccupazione sugli effetti potenzialmente a cascata della decisione dei giudici europei dei diritti umani.
La lettura della relazione, qui limitata alla comparazione conclusiva, conferma questa impressione.
In sintesi, secondo il Massimario: a) Viola l’art. 6 della Convenzione, in quanto affetto da eccessivo formalismo e non prevedibile, quell’orientamento di una parte della giurisprudenza di legittimità che impone l’onere della integrale trascrizione degli atti o documenti di causa su cui il motivo si fonda; b) Non viola l’art. 6 della Convenzione l’interpretazione giurisprudenziale, univoca sul punto, che attribuisce al ricorrente l’onere di “localizzare” gli atti ed i documenti su cui il motivo si fonda, inteso come onere di allegazione e indicazione dei riferimenti utili al reperimento del documento originale nei fascicoli del processo di merito; c) Non viola l’art. 6 della Convenzione l’interpretazione giurisprudenziale, univoca sul punto, che attribuisce al ricorrente l’onere della esposizione sommaria dei fatti, intesa come un’attività di sintesi e chiarezza, la quale implica uno sforzo da parte dell’avvocato di selezionare i fatti alla luce delle censure che intende svolgere; d) Non viola l’art. 6 della Convenzione la giurisprudenza di legittimità sul cd. “assemblaggio”, in particolare nel suo orientamento più recente, il quale sembra essersi stabilizzato nel senso di dichiarare l’inammissibilità del ricorso in cui siano stati “assemblati” atti o documenti solo quando il motivo non possa essere ricondotto al canone di sinteticità, nel rispetto del principio di autosufficienza, inteso nel suo scopo legittimo; f) Non violano l’art. 6 della Convenzione quelle interpretazioni giurisprudenziali delle regole redazionali dei ricorsi per cassazione che, prescindendo dal rigore formalistico, portano a ritenere ammissibile il motivo nei casi in cui esso sia comunque in grado di consentire il raggiungimento dello scopo suo proprio, consistente nell’identificazione della violazione che si assume viziare la sentenza e che fonda la richiesta di annullamento; e) Meritano una riflessione alla luce della sentenza Succi e altri c/Italia, sotto il profilo della loro compatibilità con i criteri di prevedibilità e di proporzionalità rispetto alla inammissibilità che ne può conseguire, le disomogeneità della giurisprudenza interna, come sopra evidenziate, in tema di: 1) ammissibilità o meno della esposizione sommaria dei fatti insieme ai motivi; 2) necessità o meno della esplicita indicazione delle norme di legge violate; 3) ammissibilità o meno dei motivi cd. “misti”.
Considerazioni finali
La sentenza Succi c. Italia ha risolto questioni connesse alla giurisdizione civile ma è ovvio che le argomentazioni su cui è stata fondata sono estensibili anche alla giurisdizione penale.
È una decisione che rende manifesto il nostro bisogno di un giudice europeo che ci ricordi a cosa servono il diritto e la giurisdizione. Ci ha ricordato in particolare ciò che la nostra Corte di legittimità ci stava facendo dimenticare: le regole e i principi non devono essere intesi come barriere tra chi ricorre alla giustizia e il suo giudice; è legittimo pretendere ordine e chiarezza da chi ricorre, non lo è addossargli oneri la cui unica ragion d’essere è un formalismo fine a se stesso; i carichi di lavoro del giudice non costituiscono un alibi accettabile per l’adozione di criteri interpretativi ed applicativi tali da limitare illegittimamente il diritto di accesso alla giustizia; la risposta ai ricorsi non può risolversi in litanie di precedenti giurisprudenziali ma deve essere individualizzata e tale da tener conto adeguatamente delle specifiche circostanze del caso oggetto del ricorso; bisogna porre massima e costante attenzione alle conseguenze negative di prassi sbrigative e perplesse, tanto più se siano il frutto di irrisolti conflitti giurisprudenziali il cui costo non può essere addossato a chi si rivolge alla giustizia per ottenere risposte chiare e plausibili a problemi concreti.
I difensori che esercitano il loro ministero in Cassazione hanno adesso un’arma in più contro il vuoto formalismo e faranno bene a menzionarla nei loro ricorsi, se non altro a futura memoria.
P.S.: questo post è una sintesi dell’articolo “Principio di autosufficienza dei ricorsi: la relazione del Massimario della Corte di cassazione sui riflessi della sentenza Succi ed altri c. Italia della Corte EDU” che ho pubblicato il 7 dicembre 2021 sul portale Filodiritto; chi volesse consultarlo lo trova a questo link.
