Con la sentenza numero 203 depositata ieri (allegata al post), la Corte costituzionale si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale del comma 5-bis dell’articolo 28 del d.P.R. numero 448 del 1988, introdotto in sede di conversione del decreto-legge numero 123 del 2023 (c.d. decreto Caivano), a tenore del quale non è consentita la sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato minorenne quando si procede per violenza sessuale aggravata (ovvero per omicidio o rapina, sempre in forme aggravate); questioni sollevate dai Giudici dell’udienza preliminare dei Tribunali per i minorenni di Roma e Bari.
Innanzi tutto la Corte ha ritenuto non censurabile, in riferimento agli articoli 3, 27, terzo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione, la scelta del legislatore di escludere la messa alla prova del minore per i delitti di violenza sessuale, «reati certamente gravi, spesso commessi, come nella specie, da minori in danno di minori».
Pur ribadito che per il minore «la funzione rieducativa della pena acquisisce un ruolo di speciale preminenza», e che quindi permane «una eterogeneità teleologica tra la messa alla prova dell’adulto e quella del minore», la Corte ha rilevato come, anche nel diritto penale minorile, «non possa negarsi un margine di discrezionalità al legislatore nella individuazione dei requisiti di accesso agli strumenti di diversion processuale, anche in funzione della particolare rilevanza del bene giuridico protetto».
La norma censurata è stata invece giudicata sproporzionata nella parte in cui esclude la messa alla prova dell’imputato minorenne anche quando la violenza sessuale rientra nei «casi di minore gravità» per i quali l’articolo 609-bis, terzo comma, del codice penale stabilisce una circostanza attenuante a effetto speciale.
L’esclusione della messa alla prova anche in tali ipotesi «frustra in modo manifestamente irragionevole la ratio posta a fondamento della circostanza attenuante in parola», ovvero assecondare la differente gravità delle specifiche condotte, tramite «la possibilità di diminuire la pena in misura particolarmente significativa, ossia fino a due terzi».
L’irragionevolezza è resa manifesta dal rilievo che «a tale significativo riconoscimento della minore gravità del fatto a livello penale sostanziale non corrisponde un’adeguata, diversa considerazione della stessa condotta con riguardo all’istituto della sospensione del processo con messa alla prova».
La Corte ha, quindi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale del comma 5 bis dell’articolo 28 suddetto nella parte in cui non esclude i casi di minore gravità.
