Si è appena concluso con un nulla di fatto il Consiglio dei Ministri che avrebbe dovuto prendere una decisione sulla data del referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati.
È stato il ministro per la Protezione civile e le politiche del mare Nello Musumeci a dire ai giornalisti: “Non ne abbiamo parlato“.
La decisione sulla data, con ogni probabilità, verrà presa a gennaio
Convocazione del Consiglio dei Ministri n. 154 | www.governo.it
Come mai il Governo tergiversa sulla fissazione della data?
Bisogna partire dalla norma, ma anche da una lunga consuetudine in materia.
Segnaliamo e proponiamo un estratto dell’interessante articolo, apparso oggi, su La Stampa a firma di Alessandro De Angelis che delinea esaurientemente la questione:
(…)
“Di qui, il calcolo di palazzo Chigi: prima si vota, meglio è, per cristallizzare nelle urne gli orientamenti attuali dei sondaggi; più si allunga la campagna, più il voto si politicizza al di là del tema dei giudici. E aumenta il rischio. Ipotesi sul tavolo, almeno finora, in una ridda di ipotesi: urne entro metà marzo, come dichiarato dal guardasigilli Carlo Nordio.
(…)
Dicevamo, la norma. Ovvero la legge 352 del 25 maggio 1970, che disciplina la materia referendaria. Prevede tre step, una volta approvata in via definitiva la legge. Primo: tre mesi dalla pubblicazione in Gazzetta per raccogliere le firme tramite parlamentari, cittadini, Regioni.
Secondo: verifica della regolarità delle medesime da parte della Cassazione entro 30 giorni. Terzo: indicazione del voto da parte del presidente della Repubblica su deliberazione del cdm. La data si può fissare in una domenica compresa tra il 50esimo e il 70esimo giorno successivo al decreto.
Applichiamola al caso in questione. La riforma è stata pubblicata in Gazzetta il 30 ottobre. Con tre mesi per la raccolta firme si arriva al 30 gennaio, che è un sabato.
Ipotizziamo un pronunciamento lampo della Cassazione e un cdm altrettanto lampo. Siamo alla prima settimana di febbraio. La prima domenica utile è il 29 marzo, la Domenica delle Palme. Non suona bene, ma è possibile.
Quella successiva è Pasqua.
Suona ancora peggio. Logica dice aprile, ma cozza col calcolo del governo.
Dove è l’appiglio per forzare? L’articolo 15 della medesima legge recita, testuale: “Il referendum è indetto entro sessanta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza (della Cassazione, ndr) che lo abbia ammesso”. Non specifica quale ordinanza in relazione alla raccolta firme (cittadini, parlamentari, Regioni).
Finora, per prassi, si è sempre consentita a tutti la possibilità raccogliere le firme, sin dal referendum del 2001 (a palazzo Chigi c’era Giuliano Amato).
E tuttavia, in punta di diritto, l’articolo è suscettibile di un’interpretazione più restrittiva. Che consiste nel procedere all’indicazione della data dopo l’ordinanza sui primi promotori che hanno chiesto il referendum.
In questo caso, i parlamentari. L’ufficio centrale della Cassazione ha già dato l’ok, comunicato il 19 novembre.
Partendo da quel termine e tagliando così i tempi per le firme popolari, ecco la data possibile, dal primo marzo in poi, al termine di una campagna corta e dopo che il paese è stato ipnotizzato per una settimana da Sanremo. È chiaro che la scelta della prima o della seconda strada non è questione solo giuridica, ma di sensibilità politica e istituzionale.
Si tratta cioè di rompere, in nome di una forzatura, una lunga consuetudine. Le intenzioni belligeranti, però, ora devono confrontarsi con una novità.
Impedirlo non è indifferente. Né dal punto di vista formale perché può anche esporre la decisione a ricorsi al Tar come hanno annunciato ieri i comitati per il no. Né dal punto di vista politico. Le opposizioni, che ieri, fiutata l’aria, hanno sollevato la questione, (Conte, Fratoianni, Bonelli ed Elly Schlein), possono anche essere trascurabili per Giorgia Meloni. Ma attenzione al Colle.
Anche Matteo Renzi, nel 2016, verificò la stessa possibilità di accorciare i tempi, perché sentiva che l’aria stava cambiando.
E anche in quel caso le firme dei parlamentari erano già state raccolte ma il Quirinale, nei contatti informali, sconsigliò caldamente, proprio in base all’opportunità di non creare un vulnus coi cittadini impegnati nella loro raccolta firme.
Difficile che Sergio Mattarella abbia cambiato idea rispetto ad allora.
Per carità, si può non tenerne conto. Ma, appunto, significa, sommare strappo a strappo…”
Queste le considerazioni di Alessandro De Angelis e per adesso il Governo prende tempo per sondare il Colle.
