La Cassazione penale sezione 1 con la sentenza numero 40771/2025 si è soffermata sulla distinzione tra il reato di lesione personale aggravata da quello di tentato omicidio e sui criteri ermeneutici utilizzabili per l’esatta configurabilità.
Occorre premettere che, in tema di omicidio tentato, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ai fini dell’accertamento della sussistenza dell’ “animus necandi” assume valore determinante l’idoneità dell’azione, che va apprezzata in concreto, con una prognosi formulata “ex post” ma con riferimento alla situazione che si presentava “ex ante” all’imputato, al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso e alle peculiarità intrinseche dell’azione criminosa, aventi valore sintomatico in base alle comuni regole di esperienza; fra gli indicatori sintomatici del dolo di omicidio sono, in particolare, annoverati, a titolo esemplificativo, il comportamento antecedente e susseguente al reato, la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima attinte, la reiterazione dei colpi, la gravità delle lesioni inferte (fra molte, Sez. 1, n. 11928 del 29/11/2018, dep. 2019, Comelli, Rv. 275012; Sez. 1, n. 30466 del 7/7/2011, Miletta e altro, Rv. 251014); l’apprezzamento dell’idoneità dell’azione in concreto non deve essere, naturalmente, condizionato dagli effetti realmente raggiunti, dovendosi diversamente l’azione ritenersi sempre inidonea, per non aver conseguito l’evento (Sez. 1, n. 39293 del 23/9/2008, Di Salvo, Rv. 241339).
Va, inoltre, rammentato che, nel delitto di tentato omicidio, ai fini della sussistenza del reato è sufficiente il dolo diretto, rappresentato dalla cosciente volontà di porre in essere una condotta idonea a provocare, con certezza o alto grado di probabilità in base alle regole di comune esperienza, la morte della persona verso cui la condotta stessa si dirige, non occorrendo, invece, la specifica finalità di uccidere, e quindi il dolo intenzionale inteso quale perseguimento dell’evento come scopo finale dell’azione (Sez. 5, n. 23618 dell’11/4/2016, Ganapini, Rv. 266915); anche il dolo alternativo, quale forma di dolo diretto, è, quindi, compatibile con il tentativo (Sez. 1, n. 43250 del 13/4/2018, Alfieri, Rv. 274402).
Va poi richiamato il costante orientamento della Suprema Corte, secondo il quale, in tema di delitti contro la persona, per distinguere il reato di lesione personale da quello di tentato omicidio occorre avere riguardo sia al diverso atteggiamento psicologico dell’agente sia alla differente potenzialità dell’azione lesiva, desumibili dalla sede corporea attinta, dall’idoneità dell’arma impiegata nonché dalle modalità dell’atto lesivo (Sez. 1, n. 24173 del 5/4/2022, Rusu, Rv. 283390; vedi anche, tra le decisioni precedenti conformi, Sez. 1, n. 51056 del 27/11/2013, Tripodi, Rv. 257881).
Alla luce dei richiamati principi, deve giudicarsi incompleta e carente la motivazione sulla base della quale, essendo incontestati i fatti come ricostruiti, la Corte di appello è pervenuta alla qualificazione giuridica censurata dal Procuratore ricorrente.
Ed invero, la Corte territoriale ha escluso la sussistenza dell’animus necandi in capo all’XXXXXXXXX, ed è pervenuta alla riqualificazione del fatto sub capo 1) in lesioni gravi aggravate dall’uso di arma, valorizzando esclusivamente i due elementi costituiti dalle minacce dirette alla p.o. una volta conclusasi l’aggressione, e dell’interruzione dell’aggressione da parte dei due correi, quando la vittima era ancora in vita.
Coglie allora nel segno la censura mossa dalla parte pubblica ricorrente laddove lamenta, quanto al primo profilo, come la condotta minatoria posta in essere dall’imputato ai danni della persona offesa, sia intervenuta in un momento logicamente e cronologicamente successivo alla conclusione della violenta aggressione perpetrata ai danni del XXXXXX: l’analisi in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo in capo all’imputato andava condotta invece con riferimento al momento dell’aggressione.
Parimenti, concettualmente errato appare, come giustamente evidenziato dal Procuratore ricorrente, il ragionamento della Corte territoriale, laddove, con ragionamento esclusivamente ex post, inferisce la mancanza dell’animus necandi in capo all’imputato, dalla circostanza che il medesimo, unitamente al correo, abbia interrotto l’aggressione, benchè la vittima fosse ancora in vita.
È infatti principio consolidato e noto che l’idoneità degli atti, richiesta per la configurabilità del delitto tentato, deve essere valutata con giudizio ex ante, tenendo conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione, in modo da determinarne la reale adeguatezza causale e l’attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto (Sez. 1, n. 27918 del 04/03/2010, Resa e altri, Rv. 248305-01).
Ed ancora va ricordato come la desistenza non sia configurabile nei casi di «tentativo compiuto», ossia quello in cui l’azione si sia perfezionata, pur senza provocare l’evento per ragioni non dipendenti dall’agente.
Non è configurabile la desistenza, che presuppone un tentativo incompiuto, quando gli atti posti in essere, da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento, integrano già gli estremi del tentativo (Sez. 1, n. 43036 del 23/10/2012, Ortu, Rv. 253616-01; Sez. 1, n. 42749 del 02/10/2007, Pepini, Rv. 238112-01).
Ebbene, la Corte Catanzarese non ha fatto buon governo dei citati principi, e, trascurando i criteri dettati in sede di legittimità, ha omesso di dar conto di tutti gli indicatori da analizzare (efficacemente riassunti dal Procuratore in sede di ricorso, e riportati supra), alla stregua dei quali avrebbe dovuto valutare la sussistenza, nel caso di specie, del contestato delitto, sia sotto il profilo oggettivo che sotto il profilo soggettivo.
E così, in primo luogo, i giudici dell’appello non hanno dato conto della integrale sequenza dell’azione aggressiva; in particolare, per come emerge dalla pacifica descrizione del fatto, XXXXXX, di età avanzata, veniva colto, dall’odierno ricorrente e dal figlio XXXXXXXX, mentre si trovava nella propria autovettura, dalla quale veniva estratto con forza per poi essere colpito reiteratamente, con un bastone, oltre che con calci e pugni, in zone del corpo sede di organi vitali, anche quando si trovava inerme riverso a terra.
Nè è stata valutata dalla Corte di merito la gravità delle condizioni di salute di XXXXXX dopo l’aggressione, documentate dal referto medico rilasciato dalla struttura ospedaliera presso la quale XXXXXX era stato ricoverato, che attestava un «trauma craniofacciale con frattura osso temporale in politrauma, altra frattura chiusa del cranio con traumatismo intracranico di altra e non specificata natura con perdita di coscienza di durata compresa tra 1 ora e 24 ore», con prognosi inizialmente riservata.
Infine, i giudici dell’appello hanno ingiustificatamente omesso di valutare, alla luce delle circostanze di fatto pacificamente emerse e poc’anzi riassunte, se, nel caso in esame, potesse ravvisarsi, quanto meno, la sussistenza del dolo alternativo, che, come noto, ricorre quando il soggetto agente prevede e vuole indifferentemente due eventi alternativi tra loro (nella specie: lesioni o morte del soggetto passivo) come conseguenza della sua condotta (fra molte, Sez. 1, n. 9663 del 3/10/2013, dep. 2014, Nardelli, Rv. 259465).
Per le esposte considerazioni, la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Catanzaro che provvederà a colmare le carenze motivazionali rilevate onde pervenire a una qualificazione giuridica dei fatti conforme ai criteri ermeneutici sopra richiamati
