I più autorevoli esponenti del fronte del “No” alla separazione delle carriere hanno affermato più volte che la riforma oggetto della campagna referendaria ha lo scopo di intaccare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e hanno aggiunto che questo è un male assoluto di cui non i magistrati ma i cittadini saranno le prime vittime perché non sarà più vero che la legge è uguale per tutti.
Sarebbe facile obiettare che in nessuna stagione della storia umana questa asserzione è stata vera.
Si potrebbe ad esempio ricorrere ad una fonte sacra come Piero Calamandrei, attingendo al suo “Processo e democrazia” del 1954: “La legge è uguale per tutti” è una bella frase che rincuora il povero, quando la vede scritta sopra le teste dei giudici, sulla parete di fondo delle aule giudiziarie; ma quando si accorge che, per invocar la uguaglianza della legge a sua difesa, è indispensabile l’aiuto di quella ricchezza che egli non ha, allora quella frase gli sembra una beffa alla sua miseria“.
Si potrebbe avere vita ancora più facile con la celeberrima regola della Fattoria degli animali di George Orwell: “Tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri“.
Si potrebbe continuare con mille altre testimonianze ma servirebbero solo a confermare quello che ognuno può comprendere da solo.
Sarebbe quindi più prudente aggiornare la comunicazione del fronte del “No”, con la precisazione che l’uguaglianza che i cittadini perderebbero in caso di vittoria del “Sì” è un’aspirazione ideale piuttosto che una realtà concreta.
Un secondo e forse ancora più importante aggiornamento è raccomandabile riguardo alla connessione, data sempre per scontata ma raramente esplicata, tra autonomia e indipendenza e uguaglianza.
Come si influenzano a vicenda questi due valori e, ancor di più, cosa occorre fare perché l’uno realizzi ed esalti l’altro?
È chiaro che qualunque cosa si abbia in mente, è alla magistratura che spetta compierla.
La giustizia è amministrata in nome del popolo: così proclama solennemente l’art. 101, comma 1, Cost. e deve e non può che essere così poiché la giustizia è una delle prerogative sovrane e la sovranità – avverte la Carta fondamentale fin dal suo primo articolo – appartiene al popolo.
La magistratura amministra pertanto la giustizia non come detentrice di un potere che le appartiene ma come delegata di un potere del cui esercizio deve rendere conto al delegante.
L’autonomia e l’indipendenza che le sono attribuite e la sua soggezione soltanto alla legge sono di conseguenza funzionali all’interesse del popolo da interpretare nel prisma dei valori costituzionali.
Se chiare sono le coordinate, assai più problematici e vaghi sono i modi di intenderle ma solo uno mi sembra quello giusto.
Lo espresse con esemplare chiarezza Carlo Verardi, un magistrato calabrese scomparso assai prematuramente nel 2001 ma che, nella sua breve e intensa vita, fece a tempo a lasciare una traccia indelebile di sapienza giuridica, sensibilità elevata per i diritti umani, passione autentica per la giustizia.
Si era sul finire del 2000 e si teneva a Venezia il congresso annuale di Magistratura Democratica, la corrente di cui Verardi era divenuto uno dei massimi e più autorevoli esponenti.
Nel suo intervento – uno degli ultimi primi della sua scomparsa – Verardi si servì del linguaggio semplice proprio di chi, dicendo la verità, non ha bisogno di proclami e frasi roboanti.
Disse che la soggezione dei magistrati soltanto alla legge, se da un lato serviva da scudo contro le invadenze di altri poteri, dall’altro implicava il loro dovere di servirsi dell’indipendenza a favore e nei confronti di tutti, senza alcuna distinzione.
Era questo per Verardi il modo costituzionale di esercitare la giurisdizione ed avrebbe dovuto permearla a partire dal basso, in ogni aula giudiziaria, in ogni giorno, in ogni occasione, in ogni atto, in ogni decisione.
Aveva ragione da vendere e non c’è nient’altro da aggiungere.
