Separazione delle carriere sì/no: un passo indietro nel tempo per ricordare cosa hanno detto autorevoli magistrati (Vincenzo Giglio)

Sono ormai parecchi anni da che Filodiritto pubblicò un mio scritto sul populismo in generale e sul populismo giudiziario in particolare (V. Giglio, Un potere senza spada e senza borsa? I rischi di un populismo giudiziario e l’uso del potere cautelare, in Filodiritto, 5 giugno 2017, a questo link).

Mi fu necessario consultare parecchie fonti per completarlo e, come correttezza vuole, ognuna di esse è citata accuratamente.

Erano fonti per lo più coeve al periodo della pubblicazione ma ve ne erano anche di più risalenti nel tempo.

Ne facevano parte per ovvie ragioni dichiarazioni pubbliche, interviste, scritti di magistrati.

Erano opinioni, senza dubbio, ma anche testimonianze di persone che hanno avuto un ruolo da protagonisti lungo decenni di vita giudiziaria.

Mi è parso, ora che la campagna referendaria sulla separazione delle carriere è entrata nel vivo, che ognuna di quelle voci avesse ancora oggi qualcosa di importante da dire.

Per il controllo delle fonti, rimando direttamente al mio scritto, con l’avvertenza che i neretti sono una mia aggiunta enfatica.

Giovanni Canzio, primo presidente della Corte di cassazione

L’opinione pubblica esprime spesso sentimenti di avversione per talune decisioni di proscioglimento o anche di condanna, se ritenute miti, pronunciate in casi che hanno formato oggetto di rilievo mediatico. Si scorge una frattura fra gli esiti dell’attività giudiziaria e le aspettative di giustizia, a prescindere da ogni valutazione circa la complessità dei fatti, la validità delle prove, i principi di diritto applicati, le garanzie del processo, la tenuta logica della decisione. Il disorientamento nasce dalla discrasia spazio-temporale fra l’ipotesi di accusa, formulata nelle indagini, il pregiudizio costruito nel processo mediatico parallelo, che s’instaura immediatamente, e le conclusioni dell’attività giudiziaria, che seguono a distanza di tempo dalle indagini, già di per sé troppo lunghe. In questa contraddizione s’annida il conflitto tra la giustizia “attesa” e la giustizia “applicata”, con il pernicioso ribaltamento della presunzione d’innocenza dell’imputato.

Talora sono lo stesso pubblico ministero, titolare delle indagini, o l’avvocato difensore a intessere un dialogo con i media e, tramite questi, con l’opinione pubblica: in tal caso, il corto circuito tra il rito mediatico e il processo penale è destinato ad accentuarsi. Si conferma, anche per questo aspetto, l’urgenza dell’intervento riformatore, diretto a restaurare le linee del giusto processo, ridando respiro all’accertamento della verità nel giudizio, secondo criteri di efficienza, ragionevole durata e rispetto delle garanzie. Nello stesso tempo, mi sembra che, per un verso, debbano essere ricostruite le linee dell’attrazione ordinamentale della figura del pubblico ministero nella cultura della giurisdizione (da cui, di fatto, è visibile, in alcuni casi, il distacco, per una sorta di spiccata autoreferenzialità, anche nei rapporti con la narrazione mediatica); e che, per altro verso, meriti di essere presa in seria considerazione la proposta di aprire talune finestre di controllo giurisdizionale nelle indagini, piuttosto che prevedere interventi di tipo gerarchico o disciplinare”.

Pietro Mennini, procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello dell’Aquila:

Mi sono chiesto più volte, come se lo chiedono i cittadini: perché un pubblico ministero, parte pubblica di un processo, ha la possibilità di convocare una conferenza stampa, spesse volte affiancato dalla polizia giudiziaria, dove rilascia dichiarazioni accusatorie, spesso vere e proprie asserzioni? Egli espone le proprie tesi d’accusa in una sede diversa da quella propria che è il dibattimento, senza la presenza di alcuno che possa confutare in alcun modo. Perché il pm non espone mai, ove ci fossero, gli elementi a favore dell’indagato? Se è impossibile farne a meno avanzo sommessamente la proposta di far partecipare alle conferenze anche il difensore dell’indagato messo adeguatamente a conoscenza degli atti”.

Piero Tony, già procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Prato

La verità è che non era più possibile, che non resistevo, che non potevo continuare, che era una situazione surreale, che vedevo troppe cose che non avrei voluto vedere e che tra stare ancora due anni qui, in mezzo a tutto questo, e andare invece via, facendo un po’ di chiasso, riprendendomi la mia vita e lanciando un messaggio, la seconda era l’unica cosa da fare. Nessun dubbio, l’unica. Perché in Italia, lo sanno anche i bambini, il processo non è più un semplice processo ma è una gogna, a volte una vergogna, e chi ha coscienza del suo lavoro sa come funziona, sa i giochi che si fanno con gli imputati e sa come si usano le intercettazioni, le carte, gli spifferi, le indagini, gli arresti. Beh, io dico no. E lo dico da sinistra. Lo dico da militante di una corrente di sinistra. Lo dico dopo aver girato mezza Italia. E lo dico dopo trent’anni di carriera. La giustizia, purtroppo, in Italia non sempre funziona come dovrebbe funzionare. Sarebbe bello, sarebbe un sogno, dire che è solo un problema di riforme, di scelte del governo, di leggi fatte e di leggi non fatte. C’è anche quello, sì, ma il problema è nostro, prima di tutto, e fino a quando non cambieremo noi non sarà possibile cambiare nulla. Vede, non so come dire, io faccio questo mestiere da molti anni, ho lavorato nelle procure più importanti d’Italia, con i poliziotti più importanti d’Italia, con i magistrati più importanti d’Italia e già negli anni Settanta mi ero accorto che c’era qualcosa che non funzionava. Qualcosa di distorto, per certi versi inevitabile, che riguarda il tema della custodia cautelare. La verità è questa: è dagli anni Settanta che i magistrati vivono con il cautelare, lo usano in modo discrezionale, con molti eccessi, e lo usano come se fosse un modo per determinare la certezza della pena. Il ragionamento è logico: non so come andrà a finire questo processo ma per far sì che il mio indagato possa avere una punizione intanto lo metto dentro (…) Il giudicato, anche grazie al fatto che ci sono spesso magistrati che portano avanti processi che sanno già in partenza che cadranno in prescrizione, coincide ormai con la pena generata dalla gogna mediatica”.

Giorgio Santacroce, all’epoca presidente della Corte di Appello di Roma e di seguito nominato primo presidente della Corte di Cassazione

Non mi piacciono i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sé e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell’imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all’acqua di rose”.

Vincenzo Olivieri, presidente della Corte di appello di Palermo

Noi magistrati dobbiamo capire che è arrivato il momento di modificare molti dei nostri atteggiamenti. La comunità nazionale e internazionale ci scruta, stigmatizzando l’enfasi mediatica che viene data a certi provvedimenti, la sovraesposizione e i protagonismi di alcuni costantemente presenti in talk show televisivi dove disquisiscono di processi in corso”.

L’ultima voce viene, per ragioni di equilibrio, dall’altra parte della barricata.

Giuliano Pisapia, avvocato, politico, amministratore pubblico

 “Troppi innocenti in cella, magistrati che fanno i moralizzatori e processi strumentalizzati a fini politici: così la gente ha perso fiducia nella giustizia (…) oggi la fiducia nella giustizia è diminuita. Responsabilità anche di chi ha commesso errori privando della libertà personale troppe persone rivelatesi poi innocenti. Non bisogna generalizzare, ma vi è stato un periodo in cui singoli magistrati, che hanno il delicato compito di amministrare la giustizia, si sono attribuiti il ruolo di moralizzatori. Così come, non di rado, la politica ha delegato alla magistratura compiti di sua competenza (…)

Il presidente dell’Anm, Davigo, ha dichiarato che la politica deve star fuori dalla magistratura…[frase dell’intervistatore]

Giusto. Ma è vero anche il contrario, l’autonomia dev’essere reciproca (…)

Il presidente della Cassazione si è scagliato contro i processi mediatici: sono colpa dei giornalisti o di chi passa loro le carte e poi magari ci costruisce sopra una carriera, talvolta anche politica? [frase dell’intervistatore]

Ognuno ha la sua parte di colpa. La responsabilità maggiore certamente è di chi “passa le carte” o di chi viola il segreto d’indagine, ma anche i giornalisti dovrebbero chiedersi a chi giova tutto questo“.

Finisce qui questa breve rassegna.

Solo opinioni – lo si è già detto – ma anche testimonianze di persone credibili e autorevoli.

Piacerebbe tanto che nella campagna referendaria si parlasse anche dei temi introdotti da costoro e presentati come caratteristiche strutturali di una parte della magistratura.

Abbandonare ogni tanto i bastioni al largo di Orione e l’iperuranio e scendere per le strade potrebbe non essere una cattiva idea.

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