Abbiamo già dato notizia (a questo link per la lettura) dell’emissione dell’attesa decisione della Consulta, precisamente la sentenza n. 185/2025 pubblicata il 16 dicembre 2025 (allegata alla fine del post, unitamente al relativo comunicato stampa), che ha escluso profili di incostituzionalità nella recente riforma del reato di traffico di influenze.
Si torna adesso sulla medesima decisione per metterne a fuoco alcuni aspetti degni di nota.
L’ordinanza di rimessione del GUP del Tribunale di Roma
Il GUP del Tribunale di Roma, quale giudice a quo, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera e), della legge 9 agosto 2024, n. 114 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare), che ha sostituito l’art. 346-bis del codice penale, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 12 della Convenzione penale sulla corruzione, fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999, ratificata e resa esecutiva con la legge 28 giugno 2012, n. 110 (di seguito: Convenzione di Strasburgo).
Premesso il rinvio alla lettura integrale della pregevole decisione della Consulta, qui ci si limita a sottolineare che il predetto giudice, come riassunto in sentenza “ha dubitato della legittimità costituzionale della disposizione censurata perché avrebbe circoscritto la fattispecie incriminatrice a «un novero di condotte assai più limitate rispetto al “contenuto minimo” previsto dall’art. 12» della Convenzione di Strasburgo. Più specificamente, essa dovrebbe ritenersi costituzionalmente illegittima, «per quanto rileva nel caso di specie, nella parte in cui, nel richiedere che la mediazione illecita sia solo quella finalizzata alla commissione di un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato, non prevede, tra le possibili finalità della condotta, i fatti rientranti [n]ella ormai abrogata ipotesi di abuso di ufficio».
Il che è come dire che il giudice a quo ha chiesto alla Corte un intervento ablativo sulla disposizione modificatrice, il citato art. 1, comma 1, lettera e), allo scopo dichiarato di determinare la reviviscenza del testo dell’art. 346-bis cod. pen., quale risultante dalla riforma del 2019 poiché tale versione, nella sua opinione, sarebbe quella conforme all’obbligo di incriminazione conforme ai dettami dell’art. 12 della Convenzione di Strasburgo.
La decisione della Corte costituzionale
Si delineano per sintesi gli snodi essenziali del percorso argomentativo della Corte.
- La violazione degli obblighi internazionali di criminalizzazione di una condotta può essere astrattamente lesiva dell’art. 117, Cost., nella parte in cui impone al legislatore il rispetto degli obblighi internazionali assunti dall’Italia.
- L’art. 12 della Convenzione di Strasburgo istituisce l’obbligo per il legislatore italiano di criminalizzare il traffico di influenze illecite.
- Nondimeno, la vaghezza dell’espressione “influenza impropria” (“improper influence” nel testo in inglese”) adoperata in quell’articolo richiede necessariamente un intervento di precisazione del legislatore.
- Tale necessità è ulteriormente accentuata dalla mancata previsione nel nostro ordinamento di una regolamentazione normativa dell’attività di lobbying cui consegua la possibilità di distinguere con chiarezza “tra illegittime e legittime forme di intermediazione con i pubblici ufficiali, finalizzate a rappresentare e sostenere interessi di singoli individui e imprese, ovvero interessi diffusi e collettivi, nei confronti delle pubbliche amministrazioni e dello stesso legislatore”.
- Ne deriva che l’interpretazione restrittiva di “mediazione illecita” privilegiata dal legislatore con la novella modificatrice del 2024 è legittima in considerazione dello spazio discrezionale ad esso riservato dalla Convenzione di Strasburgo.
- È comunque fortemente auspicabile che il legislatore introduca una disciplina organica delle attività di lobbying per le ragioni sopra indicate cui si aggiungono la garanzia della trasparenza delle interlocuzioni tra gruppi lobbisti e istituzioni pubbliche, la possibilità di controllo dei consociati sull’operato delle p.a. e dei loro rappresentanti eletti e la possibilità di ricalibrare il delitto di traffico di influenze nella prospettiva di una migliore e più avanzata tutela degli interessi collettivi.
Alcune aspettative della vigilia
In alcuni ambienti della comunità giuridica si è manifestata negli ultimi anni la propensione, allorchè pendano dinanzi la Consulta questioni di legittimità costituzionale su provvedimenti normativi di spicco, a formulare previsioni sull’esito dello scrutinio, non di rado accompagnate addirittura da ipotesi più o meno dettagliate sulle argomentazioni che il giudice delle leggi porrà a fondamento dell’esito pronosticato.
Sembrano potersi cogliere alcune caratteristiche comuni di questa tendenza.
Questi ambienti si sono ultimamente schierati e messi all’opera allorchè il legislatore ha depenalizzato talune fattispecie incriminatrici esistenti o ne ha precisato in senso restrittivo la portata applicativa.
Così è avvenuto con l’abrogazione, seguita a vari interventi modificativi, del delitto di abuso d’ufficio e con la riforma del delitto di traffico di influenze illecite.
In entrambi i casi si è preconizzato l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale rimesse alla decisione della Corte costituzionale.
La previsione è stata motivata su un certo modo di intendere il dettato di fonti internazionali rilevanti per la disciplina interna di quelle due fattispecie incriminatrici e la natura degli obblighi che ne derivavano.
Un ulteriore tratto comune si intravede nell’opinione, espressa in modo netto e assertivo, che gli interventi legislativi sospettati di incostituzionalità fossero un deprecabile segnale di cedimento nell’attività di contrasto istituzionale a pratiche di malaffare nelle pubbliche amministrazioni, inibissero l’azione degli uffici giudiziari inquirenti, producessero pericolosi vuoti di tutela e inducessero una desolata rassegnazione nella cittadinanza onesta e un senso di impunità ed un rinnovato ed entusiasta attivismo in quella dedita al crimine.
Si è messa in evidenza, particolarmente per l’abrogazione dell’abuso di ufficio, la perdita di un efficacissimo reato spia in grado di fare da ariete per la scoperta di reati di maggiore gravità.
Si è perfino ipotizzato, sempre riguardo a quell’abrogazione, che investigatori e inquirenti, venuta meno la fattispecie di prima scelta, avrebbero potuto optare per la contestazione di ipotesi di reato di maggiore gravità, tra queste in primo luogo la corruzione, con conseguente rischio per gli accusati di una sopravvalutazione peggiorativa della loro condotta.
Sullo sfondo di questo complesso di argomentazioni, sono stati spesi forti richiami ai doveri del nostro Paese verso le più importanti comunità internazionali di cui fa parte, non solo nel senso del rispetto degli accordi internazionali impositivi di obblighi di criminalizzazione o di non minore criminalizzazione di quella adottata ma anche e soprattutto nel senso di non venir meno alle aspettative di quelle stesse comunità in ordine all’impegno italiano nella lotta al malaffare.
Per contro, ben poca attenzione, ed all’insegna della noncuranza, è stata riservata negli ambienti di cui si parla all’uso concreto che si è fatto delle fattispecie incriminatrici di cui si parla, alle sbavature che in più di un caso ne hanno caratterizzato l’applicazione, ai risultati che hanno prodotto, ai danni subiti dagli accusati senza che successivi provvedimenti liberatori, spesso intervenuti a distanza di anni, fossero in grado di annullarli.
Tantomeno è stata presa minimamente in considerazione la possibilità, pure esistente e in ipotesi più efficace, di rispondere a talune condotte lesive di interessi pubblici con strumenti sanzionatori diversi da quelli penali.
Oggi si può dire che questa imponente mole di allarmi non aveva ragion d’essere ed era il frutto di un’analisi scorretta e parziale dei dati di cui tener conto ai fini della soluzione giuridica da dare ai quesiti posti dai giudici che hanno chiesto l’intervento della Consulta.
Si può anche dire che le comunità internazionali non ci avevano affatto chiesto ciò che alcuni giuristi avevano asserito esserci stato chiesto.
Non si può dire invece che la fenomenologia delle previsioni cupe e apocalittiche sia destinata a cessare.
È al contrario pienamente in azione e il suo facile e scontato campo di battaglia è adesso rappresentato dalla separazione delle carriere.
Entrambe le parti contendenti, per la verità, stanno facendo largo uso di argomenti metagiuridici, concepiti per impressionare più che spiegare e convincere razionalmente: chiamate alle armi più che dibattiti sul testo approvato dalle Camere in doppia lettura; accantonamento dei dati reali e ricorso a suggestioni piuttosto che confronti aperti su ciò che ha concretezza oggi e che potrà averla domani.
È tuttavia innegabile che i toni apocalittici siano più frequentemente appannaggio del fronte del NO e non è certo una novità ove si scorra la storia dei tanti progetti di riforma dell’assetto ordinamentale della magistratura tentati e abortiti.
In mezzo a questa contesa aspra e per certi versi surreale stanno i cittadini che avrebbero il diritto di essere informati adeguatamente per orientare consapevolmente il loro voto referendario, che sono continuamente evocati da entrambi i fronti come i destinatari del bene o del male della riforma ed ai quali però ci si rivolge per frasi fatte e con vignette caricaturali.
Questo è.
