Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 39959/2025, 3/11 dicembre 2025, ha ribadito che, in caso di scarcerazione dell’imputato per decorso dei termini di durata massima della custodia cautelare, in assenza di contestuale richiesta del PM di alcuna delle misure sostitutive intese a salvaguardare quelle stesse esigenze che è divenuto impossibile fronteggiare con la più grave misura, non ne è consentita l’adozione, salvo che non sopraggiungano nuove esigenze cautelari, diverse da quelle originarie, successivamente alla scarcerazione, e sempre che vi sia la domanda in tal senso del PM.
Provvedimento impugnato
GC ricorre, a mezzo del difensore di fiducia, avverso l’ordinanza del 21/07/2025 del Tribunale di Palermo che, decidendo in sede di rinvio dalla Corte di cassazione (Sez. 6, n. 21314/2025), ha rigettato l’appello avente ad oggetto il provvedimento con cui la Corte di appello di Palermo nel dichiarare la perdita di efficacia della misura cautelare della custodia in carcere per scadenza del termine massimo di carcerazione preventiva, ha disposto nei confronti del ricorrente quelle cumulative dell’obbligo di presentazione alla p.g. e del divieto di dimora.
Ricorso per cassazione
Con un unico motivo la difesa deduce la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 307 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 303 e 627 cod. proc. pen., 274 lett. b) cod. proc. pen. e la manifesta illogicità della motivazione. In particolare, si sostiene che il Tribunale non si è attenuto al principio di diritto enunciato nella sentenza di annullamento, non potendosi ritenere elemento idoneo ad integrare le “nuove e comprovate esigenze cautelari diverse da quelle originarie, sopravvenute alla scarcerazione” la condanna riportata dal ricorrente in appello, in quanto l’esito di tale giudizio era stato già valorizzato nell’ordinanza emessa il 28 ottobre 2024 dalla Corte di appello oggetto dell’annullamento da parte della S.C.
Peraltro, ciò che difettava nel caso in esame era l’indicazione della sussistenza di un quadro cautelare dotato quantomeno di analoga pregnanza rispetto a quello nel frattempo estintosi, in quanto per il delitto associativo era stata esclusa l’aggravante di cui al comma 6 dell’art. 416-bis cod. pen. e il ricorrente era stato assolto da alcune delle imputazioni correlate.
Peraltro, non si era tenuto nel debito conto che l’imputato aveva già trascorso in sede cautelare più di sei anni che, con la liberazione anticipata diventerebbero quasi otto, ossia oltre la metà della pena inflitta ancora non definitiva.
Non poteva, dunque, individuarsi nella pena residua un elemento confermativo del pericolo che il ricorrente si sottragga all’esecuzione della pena, stante anche l’assenza di indici dimostrativi di tal genere la cui compresenza è necessaria al fine di legittimare la prosecuzione del controllo cautelare, non potendosi, a tale scopo, fare esclusivo riferimento alla gravità del titolo di reato per cui si procede.
Decisione della Suprema Corte
Il ricorso non è fondato.
Dalla sequenza processuale risulta che in data 22 ottobre 2024 la Corte di appello di Palermo, assunto il parere contrario del PM, aveva dichiarato la perdita di efficacia della misura della custodia in carcere applicata all’imputato per il superamento dei termini complessivi di custodia cautelare. Il giorno successivo il rappresentante dell’accusa, con separata istanza, aveva chiesto l’applicazione cumulativa, ai sensi dell’art. 307, comma 1-bis, cod. proc. pen., delle altre misure cautelari dell’obbligo di dimora, di presentazione alla p.g., da integrarsi con il divieto di allontanamento dalla propria abitazione.
La Corte di appello, in data 28 ottobre 2024, accoglieva la richiesta disponendo nei confronti dell’imputato le misure richieste.
Il Tribunale di Palermo, con ordinanza del 28 novembre 2024, in parziale accoglimento dell’appello dell’imputato revocava la prescrizione del divieto di allontanamento e confermava le altre misure disposte dalla Corte di appello.
La decisione veniva annullata con sentenza n. 21134/2025 della sesta sezione della Suprema Corte.
Dalla lettura della sentenza rescindente risulta che l’annullamento con rinvio fu disposto poiché il Tribunale, nell’ordinanza impugnata, ritenne sufficiente, ai fini dell’applicazione delle altre misure di cui all’art. 307, comma 1, cod. proc. pen., la persistenza delle esigenze cautelari già indicate nel provvedimento cautelare originario, ponendosi così in contrasto con l’orientamento espresso da Sez. 1, n. 4238 del 20/06/1997, Novembre, Rv. 208499 – 01 e successivamente confermato da altre decisioni (Sez. 2, n. 15598 del 22/03/2013, Sinesi, Rv. 255787; conf. Sez. 1, n. 3035 del 10/01/2005, Cela, Rv. 230907; Sez. 6, n. 15736 del 06/03/2003, Maranzano, Rv. 225441) e financo da un obiter delle S.U. Caruso (pag. n. 44060 dell’11/07/2024, Rv. 287319), a mente del quale vi è necessità per il giudice, quando le diverse misure non siano applicate contestualmente, di motivare la decisione valorizzando nuove esigenze diverse da quelle già indicate nel provvedimento cautelare originario, sopravvenute alla scarcerazione.
La difesa ritiene che il Tribunale del riesame abbia disatteso il principio enunciato in sede di rinvio e ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, avendo individuato il fatto nuovo foriero di nuove esigenze cautelari nella “pesante pena detentiva” inflitta in appello all’imputato per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen.
Contesta che tale condanna possa evocarsi a corredo di un elemento sopravvenuto alla scarcerazione, in quanto circostanza emersa precedentemente alla perdita di efficacia della misura (disposta, come detto, il 22 ottobre a fronte della condanna emessa il 22 marzo 2024). Inoltre, posto che l’esito del giudizio di secondo grado sarebbe stato già valorizzato nell’ordinanza che aveva applicato all’imputato le misure coercitive oggetto di odierno ricorso, doveva escludersi che detto elemento potesse acquisire valenza di novum idoneo a fondare la disposta cautela ex art. 307, comma 1 e 1-bis, cod. proc. pen.
Tanto premesso, osserva il collegio che la giurisprudenza di legittimità – che rinviene anche approdi in orientamenti della seconda sezione penale (Sez. 2, n. 15598 del 22/03/2013, Sinesi, Rv. 255787 – 01) – è costante nell’affermare che, in caso di scarcerazione dell’imputato per decorso dei termini di durata massima della custodia cautelare, in assenza di contestuale richiesta del PM di alcuna delle misure sostitutive intese a salvaguardare quelle stesse esigenze che è divenuto impossibile fronteggiare con la più grave misura, non ne è consentita l’adozione, salvo che non sopraggiungano nuove esigenze cautelari, diverse da quelle originarie, successivamente alla scarcerazione, e sempre che vi sia la domanda in tal senso del PM.
A conferma di ciò il primario orientamento di Sez. 1, n. 4238/1997, da cui muove quello maggioritario successivamente formatisi ed avallato dalle S.U. Caruso, a mente del quale, laddove il PM non abbia impugnato l’eventuale provvedimento di rigetto dell’applicazione delle misure chiesto contestualmente alla scarcerazione e avanzi, come nel caso in esame, la richiesta dopo l’avvenuta rimessione in libertà, non è consentita l’applicazione di misure cautelari “sostitutive” salvo che non sopraggiungano nuove esigenze cautelari, diverse da quelle originarie, successivamente alla scarcerazione.
Dalla lettura del primo provvedimento del 28/10/2024 con cui la Corte di appello, nell’accogliere (parzialmente) la richiesta del PG (depositata un giorno dopo la scarcerazione dell’imputato per decorrenza termini), di applicazione congiunta di misure non custodiali, risulta che la cautela è stata disposta in relazione al pericolo di reiterazione ritenuto persistente in ragione della gravità del reato, dell’elevata condanna riportata, dell’operatività della presunzione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., in assenza di elementi di dissociazione o rescissione del vincolo col sodalizio criminoso.
Il provvedimento qui impugnato, invece, facendo leva sui legami ancora esistenti tra l’imputato e la cosca di appartenenza e, soprattutto, sul dato costituito dalla rete di protezione che l’organizzazione criminale denominata Cosa Nostra riesce a mettere in campo per proteggere i suoi affiliati, in specie di quelli di rilevante importanza per la consorteria, quale è indicato essere, per come accertato nel giudizio di merito, il ricorrente, ha individuato l’esigenza cautelare da salvaguardare in quella, del tutto differente, del pericolo di fuga.
La pesante condanna inflitta all’imputato, peraltro, è stata apprezzata quale elemento fondante la diversa esigenza cautelare unitamente ad altre circostanze che attribuiscono a quella condanna profili di persistente novità.
Si è, dunque, al cospetto di un novum che, oltre al dato già apprezzato dell’entità della misura pena inflitta e della condanna per il delitto associativo di cui all’art. 416-bis cod. pen., fa riferimento ad esigenze cautelari che non erano state previamente apprezzate ai fini cautelari e che sono sopraggiunte alla condanna, in quanto fanno riferimento alla predisposizione di accorgimenti volti a sottrarsi all’esecuzione della pena.
A nessun rilievo in sede di legittimità si presta, pertanto, l’ordinanza impugnata nell’aver ritenuto l’attualità del pericolo di fuga, avendo fatto riferimento ad elementi e circostanze attinenti al fatto e al soggetto, idonei a definire la probabilità che lo stesso faccia perdere le sue tracce, a nulla valendo, in punto di assenza del periculum avocato, l’esclusione di profili circostanziali inerenti al delitto associativo o al periodo già trascorso in custodia cautelare, in quanto rispettivamente temi che non elidono la persistente pericolosità del sodalizio di riferimento e la capacità di assicurare la latitanza dell’imputato e le esigenze cautelari, essendo il dato del tempo trascorso stato neutralizzato unicamente dall’intervenuta scadenza termini e non da elementi di rescissione dei profili di gravità e disvalore posti a fondamento della rinnovata cautela non custodiale.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
