Le critiche fuori mira
Tra le diverse critiche mosse alla riforma costituzionale della magistratura ve ne sono alcune evidentemente fuori mira. Si obietta, ad esempio, che non risolverà i malanni della giustizia, dimenticando che rendere il giudice veramente terzo renderà il processo più “giusto”, evitando così errori giudiziari. Si osserva che i passaggi da una funzione all’altra sono rari, trascurando che la riformapropone la separazione delle carriere, non delle funzioni, che per fortuna esiste già da tempo; perciò, il modesto numero di passaggi da una funzione all’altra non ha niente a che vedere con la separazione delle carriere che è, invece, una separazione di ordinamenti, una separazione di organizzazioni, una separazione di specializzazioni.
La verità è che non esiste un serio controllo se controllore e controllato sono colleghi.
La necessità di una riflessione “di sistema”
Come in medicina per formulare una diagnosi e praticare una terapia occorre individuare la causa del malanno, così anche nel mondo del diritto occorre ricostruire le cause dell’attuale sistema costituzionale, legislativo e ordinamentale. A tal fine occorre procedere a qualche seria e profonda “riflessione di sistema” perché i modelli processuali sono necessariamente condizionati dall’ordinamento giudiziario che regola il comportamento dei due soggetti principali del processo, il giudice e il pubblico ministero.
Il punto di partenza è l’Ordinamento giudiziario oggi vigente, che è ancora quello del 1941, approvato con r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, c.d. decreto Grandi, ministro di grazia e giustizia del Regno d’Italia, in pieno regime fascista, che prevedeva che il ministro guardasigilli esercitasse l’”alta sorveglianza” su tutti i magistrati, allora distinti per “gradi”, ma tutti indistintamente confusi, giudici e insieme pubblici ministeri, nella nozione di “autorità giudiziaria”.
Solo dopo la caduta del fascismo, il decreto Togliatti (d. lgs.31.5.1946, n. 511, Guarentigie della magistratura) restituì alla magistratura le garanzie che il fascismo le aveva sottratto, ma lasciò giudici e pubblici ministeri nello stesso ordinamento giudiziario, conservando l’unità della funzione giurisdizionale. Il “decreto Grandi”, che è stato emendato dalla Corte costituzionale e corretto ripetutamente e su diversi profili dal legislatore repubblicano, è diventato ormai come il vestito di Arlecchino, rattoppato da ogni parte, ma soprattutto continua a prevedere una carriera unica per giudici e pubblici ministeri.
Tutte le democrazie moderne presentano organizzazioni diverse per i giudici e per i pubblici ministeri, a fini di un effettivo controllo del primo sul secondo; dove non c’è questo controllo c’è la dittatura.
I lavori dell’Assemblea costituente
I Costituenti erano consapevoli che i giudici sono uniti ai pubblici ministeri solo nei regimi, com’era accaduto durante il fascismo. Perciò fecero una scelta volutamente congiunturale, obbligata in presenza del modello processuale inquisitorio, allora vigente. I tanti, autorevolissimi, costituenti – da Moro a Bettiol, da Calamandrei a Einaudi e a Leone – che parteciparono a quel dibattito, erano perfettamente consapevoli che la soluzione di un’unica carriera non fosse quella migliore. Proprio Bettiol nel 1947 dichiarava: “le funzioni del pubblico ministero non devono essere incapsulate insieme a quelle dei giudici, ma tenute distinte. È proprio dei regimi totalitari voler considerare il pubblico ministero come un organo della giustizia”. E, infatti, ne auspicavano la modifica una volta introdotto il processo accusatorio, che avvenne nel 1989, ma l’ordinamento giudiziario è rimasto inalterato nella confusione tra giudice e pubblico ministero.
In altre parole, i Costituenti nel 1947, nello scrivere le garanzie della magistratura, dovettero fare i conti, da una parte, con l’ordinamento giudiziario che, pur epurato dalle parti palesemente incostituzionali, teneva però giudici e pubblici ministeri nello stesso ordinamento giudiziario e, dall’altra, con il codice di procedura penale, che era ancora quello fascista del 1930, che attribuiva al pubblico ministero anche funzioni giurisdizionali: il pubblico ministero svolgeva l’istruzione sommaria assumendo vere e proprie prove utilizzabili in dibattimento e poteva emettere ordini di cattura, quindi con funzioni giurisdizionali, addirittura il pretore, era “uno e trino”, perché oltre a giudicare, svolgeva anche le funzioni di pubblico ministero e di difensore: una vera e propria confusione di ruoli.
La genesi dell’equivoca locuzione “autorità giudiziaria”
Ecco perché ancora oggi nella Costituzione noi leggiamo, agli artt. 13, 15 e 21, che il garante delle libertà fondamentali è l’ “autorità giudiziaria”, una nozione equivoca, ambigua, ibrida, che comprende sia il giudice sia il pubblico ministero non perché i Costituenti volessero attribuire funzioni giurisdizionali al pubblico ministero o li volessero nello stesso ordinamento giudiziario , ma perché così se li ritrovarono, “uniti da uno stesso destino”, e per cambiare e distinguere giudici da pubblici ministeri sarebbe stato necessario demolire la struttura sia dell’ordinamento giudiziario, sia del codice di procedura penale, una duplice operazione legislativa che era impossibile da realizzare nei tempi ristretti di lavoro dell’Assemblea Costituente; fu perciò una soluzione obbligata, al tempo, quella di ricorrere alla ambigua formula di “autorità giudiziaria” per far riferimento insieme al giudice e al pubblico ministero, che insieme erano disciplinati nell’allora vigente ordinamento giudiziario.
Quando fu approvata la Costituzione esisteva il pretore, che era addirittura uno e trino perché svolgeva insieme a quella dl giudice anche la funzione del P.M. e del difensore, e questa anomalia è stata eliminata senza alcuna preoccupazione.
Perciò occorrerebbe ritoccare anche altre disposizioni costituzionali: gli artt. 13 Cost. e seguenti affidano all’ “autorità giudiziaria” la tutela delle libertà fondamentali, ma occorre chiarire che è il giudice il garante delle libertà e non la parte pubblica- pubblico ministero.
Va sottolineato che i Padri Costituenti si resero perfettamente conto che l’assetto della magistratura, con l’equivoca locuzione “autorità giudiziaria”, non era coerente con la Costituzione perché non rispondeva ad una corretta distinzione tra la funzione giudicante e quella requirente, tanto è vero che la VII disp. trans. della Costituzione recita “Fino a quando non sia emanata la nuova legge sull’ordinamento giudiziario in conformità con la Costituzione, continuano ad osservarsi le norme dell’ordinamento vigente”.
È evidente che l’ordinamento giudiziario non era considerato dai Costituenti “conforme alla Costituzione”.
L’approvazione del nuovo codice di procedura penale
Poi è accaduto che nel 1989 è stato introdotto il nuovo codice di procedura penale, tendenzialmente accusatorio ma restando immutato l’ordinamento giudiziario che vedeva giudice e pubblico ministero nello stesso ordinamento giudiziario e il risultato è stato che il pubblico ministero continua a svolgere formalmente “indagini preliminari”, ma sostanzialmente una “istruzione sommaria” che dura anni e ritarda il dibattimento, al quale oggi si arriva dopo 3 o 4 anni dall’inizio delle indagini.
Nel 1988 si approvò il nuovo codice di procedura penale, entrato il vigore il 24 ottobre 1989, ma si è lasciato il vecchio ordinamento giudiziario fascista del 1941, eppure il prof. Giuliano Vassalli, partigiano che fu incarcerato dal fascismo, ministro guardasigilli, firmatario del codice, sosteneva la separazione delle carriere ma non riuscì mai a realizzare tale obiettivo.
La conseguenza è che, anche vigente il nuovo codice, il pubblico ministero è rimasto un “collega” del giudice, supera lo stesso concorso, è ancora possibile transitare da una funzione all’altra, ha la stessa carriera, è sottoposto allo stesso C.S.M., soprattutto i P.M. votano per eleggere i giudici al C.S.M., li promuovono o li bocciano nelle progressioni di carriere, li sanzionano o li prosciolgono disciplinarmente: questa è oggi la terzietà del giudice!
L’avvento del “giusto processo”
Nel 1999, la l. n. 2/1999 modificò l’art. 111 Cost, introducendo il “giusto processo”, la terzietà del giudice e la parità tra le parti; principi scritti in Costituzione ma ignorati dalla legge che lasciò ancora intatto l’ordinamento giudiziario che continua a confondere giudice con pubblico ministero, per cui l’asserita parità tra le parti e la necessaria terzietà del giudice sono restati solo teorici. Invece, come i poteri dello Stato devono essere divisi, come sosteneva Montesquieu, così le parti del processo devono essere separate per realizzare il “giusto processo” prescritto dall’art. 111 Cost.
Oggi la terzietà del giudice, pur scritta in Costituzione, in realtà non esiste perché l’accusa è rappresentata da un collega del giudice, mentre il difensore è un perfetto estraneo, così come non esiste la parità tra le parti che pure sta scritta nella Costituzione: qualche anno fa l’Unione delle Camere penali avevano diffuso una simpatica vignetta, molto realistica perché rappresentava due calciatori di due squadre avversarie e uno diceva all’altro: noi abbiamo portato il pallone ma gli avversari hanno portato l’arbitro. La verità è quindi che ancora oggi abbiamo un codice tendenzialmente accusatorio ed un ordinamento giudiziario che è rimasto inquisitorio, anzi fascista, perché risale al 1941 e nell’accomunare giudici e pubblici ministeri, ha conservato quella impostazione. Infatti, se raccontate a giuristi inglesi o nordamericani che da noi giudice e pubblico ministero sono colleghi, essi rimangono sbigottiti.
Insomma, il decreto Grandi si è dimostrato intoccabile, un vero e proprio “highlander”, un ordinamento giudiziario immodificabile, ma tuttora in contrasto con la Costituzione ed è tempo di domandarci se siamo disposti a conservare ancora l’ordinamento giudiziario fascista di ottant’anni fa, senza attuare l’art. 111 Cost.
