“Dentro il carcere”: un’occasione preziosa da alcuni persa (Gianluca Filice)

Il 5 dicembre pomeriggio, nel teatro di Rebibbia N.C., alla presenza di una delegazione di detenuti, si è svolto un convegno organizzato dalla “Commissione Carcere” della Camera Penale di Roma dal titolo “50 anni di Ordinamento Penitenziario, una riforma dietro le sbarre”.

L’Avv. Domenico Naccari (co-referente per il direttivo insieme all’Avv. Francesco Bianchi) ha moderato gli interventi dei relatori faticando non poco nel contingentare l’esiguo tempo a disposizione destinato allo sviluppo di argomenti interessantissimi, tratti dall’esperienza di numerosi e autorevoli operatori del “sistema penitenziario” i quali, ciascuno dalla propria prospettiva, hanno offerto ai presenti riflessioni acute e distintive.

In omaggio alla ospitalità riservataci, la prima a prendere la parola è stata la dr.ssa Maria Donata Iannantuono, Direttrice dell’Istituto, la quale, in conclusione dell’intervento, ha sostenuto che “senza reinserimento non c’è sicurezza” ponendo l’accento sulla necessità di operare un concreto recupero dei detenuti per la salvaguardia della stessa società che li ha momentaneamente allontanati.

Subito dopo è intervenuta la Dr.ssa Marina Finiti, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma, la quale, senza infingimenti, ha dipinto a tinte fosche il quadro nel quale, con le poche risorse a disposizione, si trova a lavorare.

Una situazione estremamente difficile che, con i mezzi attuali, è destinata a rimanere invariata”. La Presidente ha evidenziato, in particolare, che le carenze sofferte dall’Ufficio sono di natura tanto strumentale quanto umana; una situazione deficitaria che non ha nemmeno beneficiato dei fondi che il PNRR ha destinato ad altri comparti della giurisdizione.  

Un panorama, quello rappresentato dalla Dr.ssa Finiti, desolante che connota come irrisolvibili i tanti problemi evidenziati nella condizione di attuale sovraffollamento che, per ciò che comporta, esclude alla radice la possibilità di offrire un trattamento penitenziario individualizzato e finalizzato in concreto al reinserimento.

Il problema nasce anche da uno storico fraintendimento del senso e delle finalità del sistema sanzionatorio che poggia, secondo i dettami della Carta, non sulle carceri ma sulle pene e ammette la privazione della libertà come extrema ratio quando ogni altra misura risulti inadeguata a garantire la sicurezza collettiva in un contemperamento di valori di rango costituzionale che contempla la libertà come il più alto, il più protetto dei diritti della persona.

È stato toccato anche il tema della salute. L’art. 32 Cost. attualmente rimane una enunciazione che non si riesce a tradurre in buone pratiche. A causa di una grave carenza di personale non si riescono ad assicurare le traduzioni finalizzate a scortare i detenuti alle visite mediche o nei nosocomi che somministrano le terapie farmacologiche o effettuano gli interventi chirurgici che gli Istituti di pena non sono in grado di offrire al loro interno.

In sostanza, se il sistema penitenziario ancora regge è per l’incessante sforzo degli operatori che lavorano al suo interno ma, se la società non prenderà atto che il carcere ci riguarda tutti, ogni sacrificio rimarrà vano, fine a sé stesso.

Al termine del suo intervento, la Presidente Finiti, ha ricordato che l’affettività è una delle chiavi di volta del trattamento penitenziario (dalle videochiamate alle stanze dell’amore che hanno trovato, è vero, pieno riconoscimento dopo la sentenza 10/24 della Corte costituzionale ma che, in pratica, si fatica a realizzare in Istituti che non hanno neppure un adeguato numero di celle per i detenuti che, è il caso di Rebibbia, vengono ripartiti anche nelle stanze comuni destinate alla socialità) e poi, su sollecitazione del collega Naccari, ha espresso il desiderio, il primo di tanti, di ricevere più personale amministrativo e di veder ampliata la pianta organica dei magistrati, vera nota dolente della giurisdizione tutta.

È intervenuto, quindi, l’Avvocato Giuseppe Belcastro, Presidente della C.P.R., che ci ha ricordato come l’avvocatura penalista sia da sempre convinta, davanti ad un numero esorbitante di detenuti, della necessità di provvedimenti clemenziali quali l’amnistia e l’indulto.

Il Prof. Mauro Palma, il quale è ricordato con affetto e gratitudine dalla comunità carceraria e dall’avvocatura tutta per aver presieduto con competenza, abnegazione e rara sensibilità il collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà personale, ci ha ricordato che le difficoltà di un tempo erano interpretate da tutti gli operatori quale stimolo, un pungolo, per trovare tutti insieme le soluzioni ai diversi problemi che, anche allora, affliggevano l’esecuzione penale mentre, oggi, pare viga una illegalità decisamente diffusa che costituisce uno scenario nuovo sul quale intervenire è assai più complicato di un tempo. 

La Dr.ssa Silvana Sergi, già Direttrice di “Regina Coeli”, oggi al Provveditorato regionale del Lazio, Ufficio del personale, ha espresso tutta la sua riconoscenza verso un Ordinamento penitenziario che si pone l’obiettivo di regolare la vita nelle carceri e che, soprattutto, punta alla risocializzazione dei condannati quale strumento di riscatto ed affrancamento di soggetti che possono e devono trovare un nuovo spazio nella società civile.

Il Prof. Stefano Ferracuti, psichiatra di indiscussa fama, ha certificato quella che (chi ha osservato l’evoluzione nel tempo della popolazione carceraria aveva intuito) è la nuova tipologia di recluso, ovvero, un soggetto spesso straniero, spesso senza legami con connazionali o italiani, spesso affetto da patologie psichiche il quale, dopo la chiusura dei manicomi civili e, successivamente, degli O.P.G., nel carcere non beneficia delle competenze e delle prassi tipiche dei servizi sanitari psichiatrici. Il carcere quale discarica sociale e mentale cui le REMS non riescono a dare sollievo per il loro numero esiguo e per l’inadeguatezza dell’intervento che, in pochi ma preoccupanti casi, andrebbe calibrato su due direttrici: cure mediche ad alta specializzazione e contenimento.

È stato, poi, il turno del Commissario della Polizia Penitenziaria, Giovanni Passaro, il quale ha riferito circa le difficoltà del personale di polizia che sopporta con spirito di sacrificio turni massacranti che arrivano anche a 16 ore continuative; si prospetta un aumento di personale che, si spera in tempi brevi, dovrebbe dare un po’ di sollievo al corpo.

Rita Bernardini, Presidente di “Nessuno Tocchi Caino”, è andata dritta al punto: l’Ordinamento penitenziario ha 50 anni ma ne dimostra molti di più, eppure, di fronte al dramma del sovraffollamento, prima il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, poi, il Presidente del Senato, Ignazio La Russa, infine, il Vice Presidente del C.S.M., Fabio Pinelli, hanno richiesto al Governo la necessaria attenzione verso i problemi delle carceri, per cui il nostro compito è quello di farci parte diligente e convogliare verso il comune obiettivo, senza polemiche e distinzioni di sorta, ogni forza politica che mostri una minima apertura in tal senso.

Pasquale Bronzo, Docente di diritto penitenziario presso “La Sapienza”, ha descritto l’evento di oggi come un compleanno triste, illustrando un sistema che non si fida dei presidi anche in relazione ai detenuti comuni. La missione di tutti gli operatori deve essere la risocializzazione e l’Università opera attraverso tre passaggi: 1) la didattica 2) la ricerca e, il più importante in questa sede, 3) il sostegno che garantisce il diritto allo studio.

Gianpaolo Catanzariti, responsabile dell’Osservatorio Carcere di U.C.P.I., ha puntato tutto sulla “umanizzazione” del trattamento penitenziario. Ha ricordato come mai, per nessuna ragione, la sicurezza può prevalere sull’umanità e ancor meno sulla dignità delle persone recluse.

L’Avvocata Maria Brucale, co-responsabile insieme al collega Riccardo Contardi della Commissione Carcere della C.P.R., ha stigmatizzato la politica di edilizia carceraria allestita dal Governo quando sarebbe prioritario, per assicurare la legalità nella esecuzione della pena, ripensare e rinnovare quelle esistenti che, basti pensare al crollo del tetto di “Regina Coeli”, andrebbero anche messe in sicurezza. Siamo tutti chiamati ad operare un cambio di paradigma quando pensiamo al carcere: ad esempio, un educatore non dovrebbe limitarsi a perseguire il pentimento del ristretto, quanto piuttosto la consapevolezza delle conseguenze delle azioni commesse, orientando la propria azione di recupero a una risocializzazione in chiave laica; in tema di 41 bis O.P., andrebbe ripensata la esclusiva competenza dell’Ufficio di sorveglianza di Roma, decentrando le funzioni attraverso l’assegnazione del compito di valutare la legittimità della applicazione del regime detentivo differenziato ad un Giudice di prossimità che possa cogliere attraverso l’osservazione del percorso del detenuto la sua evoluzione nel tempo; ancora, bisognerebbe richiamare il Garante nazionale alla sua delicata e indispensabile funzione e al dovere di svolgere in tutti i luoghi di restrizione della libertà visite ispettive a sorpresa e di presentare al Parlamento di anno in anno un rapporto dettagliato.

È stato chiesto, poi, ai detenuti se volessero intervenire. Si sono fatti avanti Gianni Alemanno e Fabio Falbo.

Alemanno ha riferito di un degrado impressionante che non aveva potuto apprezzare quando, ormai 40 anni fa, era stato ospite delle patrie galere per quelli che lui stesso ha definito errori di gioventù; del resto, il tasso medio di sovraffollamento è del 138,4%, esso cresce dello 0,5% al giorno ma, come ricordato dal collega Belcastro, in alcune località raggiunge anche il 200%.

La politica, per chi di politica ha sempre vissuto, è latitante ma va costretta a prendersi la responsabilità di quello che sta accadendo, sucidi compresi.

Alemanno ha evocato l’indispensabilità che i politici di destra al Governo ragionino in termini di utilità collettiva perché, se si vuole garantire la sicurezza, allora, è necessario investire nel recupero dei condannati al fine di abbattere la potenziale recidiva cui è inevitabilmente confinato chi non viene aiutato a rialzarsi.

La rieducazione passa anche per il rispetto della dignità umana e la dignità dell’essere umano è garantita se alla legittima privazione della libertà si accompagnano quei minimi presidi di civiltà che sono costituti da un ambiente riscaldato in inverno, dalla possibilità di fruire di acqua calda nelle docce, da condizioni igienico-sanitarie decorose, da un sufficiente spazio vitale, dalle cure mediche, dall’accesso al lavoro ed alla cultura. 

In difetto risulta inevitabile l’accentuarsi di condotte reattive da parte dei reclusi.

Fabio Falbo, visibilmente emozionato, si è concentrato sulla figura del compianto Prof. Gianzi il quale, ha ricordato nell’intervento, spesso lo pungolava su delicate questioni di diritto, quali lo scioglimento del cumulo giuridico tra reati ostativi e comuni, oppure, su temi che toccano nel profondo l’animo umano: come si fa a coniugare giustizia e carcere? Assai spesso una larga parte di esigenze rimane senza tutela perché non inalveabile nella categoria dei “diritti soggettivi”. E allora, forse, dovrebbe arrivare al vaglio della magistratura anche il mancato rispetti di aspettative e interessi legittimi che in carcere assai spesso assumono grande valore.

In definitiva, è stato un incontro sentito, intenso, ricco di suggestioni.

Un’occasione preziosa colta da circa duecento persone che hanno sentito l’esigenza di partecipare ad una riflessione collettiva, ad un confronto aperto su un tema complesso e controintuitivo che deve essere portato al centro del dibattito perché l’errore è nel destino dell’essere umano, per usare le parole di Georges Duhamel esso “è la regola, la verità un suo accidente”, per cui, ghettizzare la devianza non potrà che generare altra devianza, diversamente, riconoscerne l’indissolubilità con l’agire umano e individuarne, caso per caso, le origini ci permetterà di ridurre le sue manifestazioni.

In tale prospettiva, ci sono sembrate troppo poche le persone detenute ammesse a condividere l’evento la cui prevalente finalità, dai noi sentita profondamente, era quella dare voce ai ristretti in un confronto dialettico aperto con gli ospiti intervenuti.

Lo spazio riservato alla loro parola è stato, invece, assai ristretto e questo ha segnato un solco, doloroso da sopportare, tra il mondo dentro e quello fuori.

Ed allora, di fronte alle criticità evidenziate da tutti coloro che hanno partecipato al dibattito, ognuno è in grado di trarre le proprie conclusioni.

Noi, al ritorno nelle nostre case, circondati dall’affetto dei cari e dai comfort domestici, siamo rassicurati da una prospettiva di vita che, per quanto difficile, si apre ogni giorno alla speranza che le cose migliorino, ma lasciamo all’interno del penitenziario una situazione la cui drammaticità è determinata, in primo luogo, dalla scarsità delle risorse, un fattore comune evocato nei diversi interventi.

Chi è solito frequentare il carcere, per lavoro o come volontario, sarà d’accordo con me se dico che, al suo interno, il tempo sembra sospeso, si vive in apnea o anche che, una volta usciti, e ogni volta che ciò si verifica, si ha l’impressione che una parte di noi sia rimasta all’interno della struttura.

Per questa ragione, tributato il giusto riconoscimento ai nostri ospiti per averci offerto diversi spunti di riflessione, vorrei riconoscere un particolare merito agli organizzatori dell’evento per aver portato il convegno all’interno del carcere; questa idea è scaturita dal desiderio di ricordare che il sistema di norme che disciplina la vita negli Istituti di pena ha trovato la sua origine nella metà degli anni 70, un’epoca contrassegnata dalla crudezza degli scontri politici ma anche dalla rapida ascesa dei fenomeni di criminalità organizzata che, tuttavia, non hanno impedito a quel Legislatore di erigere presidi giuridici di garanzia e di rispetto della dignità umana.

Oggi, come pure è stato ricordato dall’Avvocato Belcastro, la grande assente è la Politica, senza possibilità di operare sostanziali distinzioni tra i diversi schieramenti.

Eppure, la cosa non ci meraviglia perché, a differenza di quanto accadeva qualche decennio fa, la Politica non traccia la strada, ora cavalca l’onda della emotività, la usa strumentalmente per raccogliere consenso assecondando le istanze punitive di natura populista.

Siamo consapevoli che si tratta di un terreno assai scivoloso e, pur continuando a coltivare la speranza di un cambio di passo delle forze politiche tutte, riteniamo sia quanto mai preziosa, se non necessaria, una incessante divulgazione dello stato in cui versa il “pianeta carcere”.

Si dirà, anche da parte dei più moderati, che se i detenuti si trovano a patire le sofferenze derivanti dalla reclusione, al netto di una fisiologica quota di errori giudiziari, se la saranno cercata, lo avranno meritato.

Noi certe cose non le facciamo e, quindi, dentro non ci siamo!

È certamente vero (salvo una percentuale di errori): chi soffre la detenzione, nelle misere condizioni in cui versa, avrà violato il patto sociale, avrà infranto le regole che ci siamo dati per assicurare ai consociati la convivenza pacifica, ma non è questa la prospettiva corretta dalla quale ci sembra giusto analizzare il fenomeno oggetto del convegno.

Nessuno di noi, escluso quando -per ragioni professionali- ne conosciamo le vicende, può e, ancor prima, vuole entrare nel merito della storia processuale e detentiva dei reclusi del Paese.

Il compito collettivo che ci siamo dati non consiste nel difendere i detenuti, bensì parlare ai cittadini del fatto che, alla privazione della libertà quale massima espressione sanzionatoria, non deve mai seguire una afflizione secondaria perché essa determina un trattamento disumano, contrario ai precetti costituzionali, generatrice di recidiva. 

Un trattamento rieducativo improntato ai valori della umanità, del rispetto della persona, della cultura e della rieducazione, conferisce al recluso la possibilità concreta di ritrovare o di conquistare ex novo un ruolo nella società; soltanto questo percorso virtuoso, abbattendo la recidiva, vivifica pienamente il dettato costituzionale.

L’ultima menzione la merita il collegio  del Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale i cui membri hanno pensato bene di disertare il convegno: Sappiamo tutti che, dall’insediamento del Governo Meloni, l’azione di quella che dovrebbe essere una Agenzia indipendente istituita per vigilare sulla salvaguardia dei diritti dei reclusi, è del tutto fallimentare per mancanza di terzietà, per un approccio burocratico, scarsa indipendenza, per l’omissione delle visite non programmate nei luoghi di restrizione, i ritardi od omissioni nel deposito delle relazioni parlamentari, per aver determinato la fuga di legali esperti e, sostanzialmente, aver manifestato incapacità nel contrastare sovraffollamento e suicidi certificando, così, che le nomine politiche minano la credibilità dell’Istituzione.

Tuttavia, giusto in tema di assunzione di responsabilità (argomento spesso agitato dai giustizialisti) quando abbiamo stabilito gli inviti non avremmo mai immaginato che nessun membro si sarebbe presentato al confronto, evidentemente la vergogna ha prevalso sul coraggio.

In ultimo, non per l’importanza che riveste, un doveroso ringraziamento ai membri della Commissione Carcere che hanno partecipato all’organizzazione dell’evento:

Riccardo Contardi, Alessia Martini, Francesca Garzia, Roberta Piraino, Francesco Buonomini, Giorgio Colangeli, Daniel Giudice, Edoardo Albertario, Michela Macori, Michele Corroppoli, Antonio Nucera.

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