Le Sezioni unite penali della Suprema Corte riconoscono il diritto dell’imputato alloglotto alla traduzione degli atti (Gianluca Filice)

Le Sezioni unite penali, con la sentenza n. 38306/2025, 29 maggio/26 novembre 2025, hanno affermato due importanti principi di diritto: l’omessa traduzione della sentenza di primo grado all’imputato alloglotto che non comprende la lingua italiana integra una nullità generale a regime intermedio, ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.; l’omessa traduzione del decreto di citazione in appello all’imputato alloglotto che non comprende la lingua italiana integra una nullità di ordine generale a regime intermedio, ove riguardante l’avvertimento all’imputato che non comparendo sarà giudicato in assenza, ovvero se manca o è insufficiente l’indicazione di uno dei requisiti previsti dall’art. 429, comma 1, lett. f), cod. proc. pen.

Provvedimento impugnato

Con sentenza pronunciata dal Giudice dell’udienza preliminare all’esito di giudizio abbreviato, due imputati venivano condannati alla pena di anni due e mesi otto di reclusione ed € 600,00 di multa ciascuno per avere concorso nel delitto di rapina e di lesioni personali.

La sentenza ha dato atto che uno tra gli imputati necessitava di un interprete di lingua inglese ed, effettivamente, il verbale di udienza ne ha attestato la presenza anche al momento della lettura del dispositivo.

Successivamente, entrambi gli imputati proponevano appello ma la Corte territoriale respingeva la richiesta formulata in sede di conclusioni scritte dal nuovo difensore dell’imputato straniero, volta a dichiarare la nullità della sentenza di primo grado e del decreto di citazione in appello per l’omessa traduzione di tali atti in una lingua conosciuta dall’imputato.

È bene precisare che era stata chiesta la trattazione orale del procedimento e la notifica del decreto di citazione era stata effettuata all’imputato presso il difensore, ai sensi dell’art. 161 co. 4 c.p.p.

La Corte territoriale, inoltre, aveva dato atto che la sentenza di primo grado era stata tradotta a cura dell’interprete in udienza e che nessuna richiesta di traduzione era stata avanzata dall’imputato che, tra l’altro, era stato ritenuto in grado di comprendere la lingua italiana. In ogni caso, alcun pregiudizio era stato indicato dalla difesa in ordine alla completa esplicazione del diritto di difesa: l’appello era stato presentato dal difensore e, non essendo stata chiesta la traduzione della sentenza, ai giudici di seconde cure era apparso evidente che l’imputato era stato reso edotto del contenuto della sentenza di primo grado, avendo delegato il difensore alla rappresentazione delle ragioni a sostegno della impugnazione, senza richiedere alcun diverso termine per proporre personalmente l’appello.

Ricorsi per cassazione

Avverso la sentenza di secondo grado presentavano ricorso per cassazione i difensori degli imputati; per quanto interessa in questa sede, l’analisi verrà limitata al primo dei motivi concernente la violazione ed erronea applicazione degli artt. 143, 178 co. 1 lett. C) e 180 c.p.p., nonché del D.Lgs. 4 marzo 2014, n. 32, con riferimento all’omessa traduzione della sentenza di primo grado e del decreto di citazione in appello.

Assume la difesa che la decisione della Corte di appello di non accogliere l’eccezione di nullità, sollevata con i motivi nuovi e riproposta in sede di conclusioni scritte, con riferimento alla sentenza di primo grado e al decreto di citazione in appello, si pone in violazione della normativa in tema di traduzione degli atti in favore dell’imputato alloglotto, che non conosce la lingua italiana, e che esige, a tutela dell’effettività dei diritti di difesa e del contraddittorio, che sia garantita la partecipazione consapevole dell’imputato al suo processo.

All’udienza del 14 febbraio 2025 la Seconda Sezione penale, investita della decisione dei ricorsi, con ordinanza, depositata l’11 marzo 2025, ne ha rimesso la trattazione alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618 co. 1 c.p.p., rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulle conseguenze derivanti nei confronti dell’imputato alloglotto che non conosca la lingua italiana dall’omessa traduzione “nella lingua a lui nota” della sentenza e del decreto di citazione per il giudizio di appello.

Decisione della Suprema Corte

Nel caso che l’omessa traduzione in una lingua nota all’imputato riguardi il decreto di citazione a giudizio in appello, l’ordinanza di rimessione ha dato atto della presenza nella giurisprudenza di legittimità di due orientamenti:

  • secondo un primo orientamento, l’obbligo di traduzione riguarda tutti gli atti indicati dal secondo comma dell’art. 143 c.p.p., in quanto è funzionale a garantire all’imputato l’effettività della partecipazione al procedimento, anche in fase di appello, oltre che l’esplicazione della difesa in forma diretta e personale e, quindi, la sua omissione dà luogo ad una nullità di ordine generale a regime intermedio anche per gli atti – come il decreto di citazione a giudizio in appello – di “impulso processuale”; quanto all’inquadramento del vizio, come nullità di ordine generale a regime intermedio, questa esegesi si basa sugli insegnamenti delle Sezioni Unite in tema di mancata traduzione nella lingua dell’imputato alloglotto del decreto di citazione a giudizio (Sez. Un. n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216259 -01) e di omessa traduzione dell’ordinanza cautelare (Sez. Un. n. 15069 del 26/10/2023, dep. 2024, Niecko, Rv. 286356 -01).
  • secondo un diverso orientamento, il decreto in esame, non contenendo, a differenza dal decreto che dispone il giudizio di primo grado, alcun elemento relativo alla “accusa”, che è già nota all’imputato, ma solo i requisiti funzionali all’individuazione dell’imputato, del procedimento e della data di trattazione del giudizio di appello, non deve necessariamente essere tradotto, venendosi così anche a rispettare i principi sovranazionali in tema di processo equo (art. 6 CEDU) che stabiliscono il diritto dell’accusato a essere informato, in una lingua che comprende, dell’accusa elevata contro di lui.

L’ordinanza ha evidenziato come il contrasto derivi essenzialmente dalla diversa rilevanza assegnata, ai fini dell’effettivo esercizio delle prerogative processuali riservate all’imputato, alle informazioni contenute nel decreto di citazione a giudizio in appello: secondo il primo orientamento, queste informazioni hanno una funzione informativa e propulsiva, la cui conoscenza in lingua nota all’imputato garantisce l’effettività del suo diritto di partecipazione al giudizio di secondo grado e tutela le sue prerogative difensive; secondo l’altro orientamento, la traduzione è obbligatoria solo per gli atti che contengono informazioni in ordine alla “accusa”, sicché non riguarda il decreto di citazione a giudizio in appello, che non contiene informazioni decisive per l’esercizio effettivo del diritto di difesa, risultando comunque garantito il diritto alla consapevole partecipazione grazie all’assistenza prestata dall’interprete in udienza.

La Sezione rimettente ha fatto presente che la C.d. riforma Cartabia ha arricchito il contenuto informativo del decreto di citazione in parola, che ora deve contenere anche l’avviso in ordine alla possibilità di accesso alla giustizia riparativa, prospettando l’eventualità che, qualora quest’ultimo avviso non sia rappresentato all’imputato nella lingua dallo stesso compresa, si potrebbe profilare un’ulteriore (ed inedita, prima della riforma) limitazione delle sue prerogative processuali.

L’ordinanza di rimessione ha segnalato che anche sulle conseguenze derivanti dalla omessa traduzione della sentenza emessa in sede di giudizio di cognizione di merito si registrano orientamenti interpretativi divergenti, nonostante il recente intervento delle Sezioni Unite (Sez. Un. n. 15069 del 26/10/2023, dep. 2024, Niecko, Rv. 286356 -01) che, pronunciandosi su un analogo contrasto riguardante il diritto alla traduzione dell’ordinanza di custodia emessa nei confronti di un imputato o indagato alloglotto, hanno affermato che l’inadempimento dà luogo ad un vizio del provvedimento, qualificabile come nullità generale a regime intermedio, sottoposta agli ordinari termini di deducibilità e decadenza.

L’ordinanza ha evidenziato come le Sezioni Unite siano pervenute a tale approdo valorizzando ampiamente la matrice costituzionale e convenzionale del diritto alla traduzione, richiamando la sentenza n. 10 del 1993 della Corte costituzionale, secondo cui l’obbligo di traduzione trova il suo fondamento sistematico nell’art. 24, secondo comma, Cost., che assicura la difesa come “diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”, prefigurando un diritto soggettivo perfetto direttamente azionabile dall’imputato o dall’indagato alloglotto.

Le questioni di diritto per le quali i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni Unite sono le seguenti:

  • “se il decreto di citazione per il giudizio di appello debba essere tradotto in una lingua nota all’imputato che non conosca la lingua italiana”;
  • “se la mancata traduzione della sentenza in una lingua nota all’imputato che non conosca la lingua italiana integri una nullità generale a regime intermedio ovvero determini il solo differimento per l’imputato della decorrenza del termine per l’impugnazione”.

Il Collegio ha ritenuto che debba essere ribadita la linea interpretativa già tracciata da Sez. Unite “Niecko” chiamate a dirimere un analogo contrasto interpretativo, formatosi successivamente alla riforma dell’art. 143 co. 2 c.p.p., con riferimento al vizio derivante dalla mancata traduzione dell’ordinanza che dispone una misura cautelare personale entro un termine congruo in una lingua nota all’imputato che non conosca la lingua italiana; in tale decisione era assegnato alla sentenza della Corte costituzionale 12 gennaio 1993, n. 10 un ruolo fondamentale per la definizione del diritto di difesa dell’imputato e dell’indagato alloglotto che non conoscono la lingua italiana.

Muovendo da tale premessa interpretativa e, quindi, dalla necessità di assicurare la più ampia tutela all’obbligo di traduzione degli atti in una lingua nota all’imputato o all’indagato alloglotto, le citate Sez. Unite hanno ritenuto di aderire all’orientamento giurisprudenziale secondo cui le ipotesi di mancata o tardiva traduzione dei provvedimenti che dispongono una misura cautelare personale nei confronti di un cittadino straniero che non conosce la lingua italiana concretizzano un vizio dell’atto.

La traduzione dell’ordinanza cautelare personale costituisce, infatti, per il soggetto alloglotto, la condizione preliminare per l’esercizio delle prerogative difensive, consentendogli la comprensione dei motivi per i quali è intervenuta la privazione della libertà personale, assicurandogli così “una garanzia essenziale al godimento di un diritto fondamentale di difesa…” (in tal senso richiamando Corte cost., sent. n. 10 del 1993, cit.).

Secondo Sez. Un. “Niecko” è lo stesso codice di rito ad indicare la sanzione derivante dall’omessa traduzione di tale atto, attraverso la lettura sistematica dell’art. 143 c.p.p. con l’art. 292 co. 2 c.p.p. là dove quest’ultima norma prescrive, a pena di nullità, il contenuto “essenziale” dell’ordinanza cautelare, funzionale (così le lettere b e c) per l’esercizio del diritto di difesa da parte del soggetto sottoposto a una misura cautelare.

La risposta del sistema alla mancata traduzione in un termine congruo del provvedimento cautelare va rinvenuta, secondo il Supremo Consesso, non nella categoria della “inefficacia” ma in quella delle nullità, sicuramente più fisiologica rispetto alla dimensione del primario diritto di difesa coinvolto, e quindi in quella prevista dalla lettera c) del comma 1 dell’art. 178 c.p.p., a tutela delle disposizioni concernenti “l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza” dell’imputato.

Quindi, al di là della previsione espressa dell’art. 292 c.p.p., è lo sfondo sistematico contrassegnato dalla primaria rilevanza del diritto di difesa, che ha portato le Sezioni Unite ad individuare nella nullità a regime intermedio la sanzione cui dovere fare formalmente riferimento.

Muovendo da tali premesse, il Collegio ha ritenuto che analoghe ragioni di ordine sistematico conducano ad individuare nella medesima sanzione la risposta alla violazione dell’obbligo di traduzione delle sentenze nella fase del giudizio di cognizione.

L’orientamento largamente maggioritario che ha individuato nella sola inefficacia della sentenza la conseguenza dell’inadempimento presenta, infatti, plurimi profili critici e distonici rispetto ai principi costituzionali e all’assetto sistematico del processo penale, come delineato dal codice di rito.

Come ha di recente rammentato la Corte costituzionale (sent. n. 116 del 2023), la ragionevole durata del processo “è oggetto, oltre che di un interesse collettivo, di un diritto di tutte le parti, costituzionalmente tutelato non meno di quello ad un giudizio equo e imparziale” (così sent. n. 78 del 2002, punto 3 del Considerato in diritto).

È dunque alla luce di questi principi – enunciati con riferimento all’art. 111, secondo comma, Cost. – che va vagliata la ragionevolezza di un orientamento giurisprudenziale in relazione al suo effetto di dilatazione dei tempi di definizione del processo.

Se è principio pacifico che il diritto di difesa non può essere giammai sacrificato dal principio di ragionevole durata del processo, in quanto ciò che rileva è esclusivamente la durata del “giusto” processo, quale delineato proprio dall’art. 111 Cost. (tra le tante, Corte Cost. sent. n. 11 del 2022), è dovere del giudice individuare all’interno del sistema processuale il rimedio che sia conforme al modello costituzionale, che esige una piena tutela del principio del contraddittorio e del diritto di difesa, senza tuttavia imporre un sacrificio non necessario e dunque irragionevole alla durata del processo.

La soluzione dello slittamento sine die del termine per impugnare si presta, in ogni caso, a produrre effetti distorsivi anche sulla stessa posizione dell’imputato.

Il legislatore ha stabilito che la traduzione della sentenza avvenga “entro un termine congruo tale da consentire l’esercizio dei diritti e della facoltà della difesa”.

Sostenere che l’interessato non possa tempestivamente dedurre la violazione di tale prescrizione nel corso del processo viene ad esporre l’imputato ad un provvedimento che, indipendentemente dalla sua definitività o dalla sua esecuzione, è comunque idoneo a produrre effetti pregiudizievoli sia all’interno del processo sia al di fuori di esso.

Il meccanismo della restituzione nel termine presuppone, invero, un termine di impugnazione già scaduto e una causa impeditiva, estranea all’interessato, che è oramai cessata: nella fattispecie della sentenza non tradotta, il termine per l’impugnazione dell’imputato non sarebbe decorso e la causa impeditiva (la omessa traduzione) comunque non ancora superata. Pertanto, anche a voler “adattare” lo strumento restitutorio per ripristinare il diritto violato, la richiesta della restituzione nel termine per impugnare, a fronte della perdurante inerzia dell’amministrazione giudiziaria nell’adempimento dell’obbligo di traduzione, verrebbe surrettiziamente ad imporre all’imputato iniziative ed oneri sollecitatori che l’art. 143 co. 2 c.p.p. esclude.

In ordine alla esegesi che individua nella nullità la sanzione della sentenza non tradotta, va osservato quanto segue.

Va preliminarmente ribadito che l’obbligo di tradurre l’atto processuale non insorge per il solo fatto che l’imputato non sia un cittadino italiano, ma necessita dell’accertamento che lo stesso non conosca la lingua italiana, come, da tempo, pacificamente affermato dalla giurisprudenza europea (per tutte, Corte EDU, Grande Camera, 18/10/2006, Hermi C. Italia, par. 71), costituzionale e di legittimità (sin da Corte Cost. n. 10 del 1993 e Sez. Un., n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216258 -01).

Nel caso della sentenza, il giudice, quando la emette, già ha avuto modo di verificare che l’imputato parli o meno la lingua italiana e la comprenda, avendo, se presente al giudizio, provveduto alla nomina di un interprete.

Quindi l’obbligo di traduzione scritta della sentenza viene ad emergere prima della fase decisoria. Tale obbligo va riferito all’atto comprensivo non solo della decisione, che si esprime con il dispositivo, ma anche della motivazione.

L’art. 143 co. 2 c.p.p., nel prevedere la necessaria traduzione delle “sentenze”, mira ad assicurare la partecipazione personale e consapevole al procedimento dell’imputato, rendendo effettive le sue prerogative difensive attraverso la piena comprensione del significato di tali atti.

La traduzione costituisce per l’imputato che non comprende la lingua italiana il necessario strumento per un concreto ed effettivo esercizio del proprio diritto alla difesa, garantito dall’art. 24 co. 2 Cost.

Essenziale per l’imputato è non solo comprendere il significato della decisione, ma anche delle ragioni su cui la decisione è fondata, al fine di poter valutare, personalmente e consapevolmente, se e come esercitare il diritto di impugnazione.

Anche nel caso in cui l’impugnazione sia presentata dal solo difensore, la traduzione della sentenza consente all’imputato sia di decidere “consapevolmente” sulla scelta effettuata dal difensore (come dimostra l’ultimo comma dell’art. 571 c.p.p.) sia di offrire elementi utili alla difesa per contrastare il provvedimento da impugnare.

Come noto, il D.Lgs. n. 150 del 2022, con la novella dell’art. 581, comma 1 quater c.p.p., ha inteso limitare l’esercizio della facoltà di impugnazione da parte del difensore (ora solo di ufficio) dell’imputato assente nel giudizio ai soli casi in cui lo stesso imputato, con una scelta ponderata e consapevole, abbia legittimato quell’esercizio con il rilascio di un apposito mandato conferito al patrocinatore.

Parallelamente, può dunque ritenersi, in via interpretativa, che, anche nel caso di sentenza non tradotta, l’inadempimento pregiudichi le prerogative difensive del soggetto (l’imputato alloglotto che non conosce la lingua italiana) che ha la titolarità sostanziale del diritto all’impugnazione e si rifletta quindi anche sulla facoltà di impugnazione riconosciuta al suo difensore.

Quindi dal combinato disposto degli artt. 143 e 546 c.p.p. discende che la sentenza la cui motivazione non sia stata tradotta va equiparata, nei confronti dell’imputato alloglotto, ad una sentenza priva di motivazione e, quindi, affetta da nullità.

Fatta questa premessa, va precisato che la nullità non investe il giudizio, ma soltanto la “sentenza-documento” redatta esclusivamente in lingua italiana e comporta l’annullamento e la restituzione degli atti al giudice a quo, nella fase successiva alla deliberazione, affinché si provveda ad una nuova redazione della “sentenza-documento” che deve essere nuovamente depositata, con l’effetto che i termini di impugnazione decorreranno, ai sensi dell’art. 585 c.p.p. dalla notificazione e comunicazione dell’avviso di deposito della stessa sentenza.

Analogamente deve ritenersi che la mancata traduzione della sentenza non travolga l’atto in sé (e quindi la decisione assunta, che si perfeziona con la lettura del dispositivo), ma attenga al momento procedimentale successivo alla deliberazione, ovvero alla fase del procedimento in cui avviene il deposito della sentenza.

La nullità derivante dalla omessa traduzione della sentenza va qualificata come nullità generale a regime intermedio poiché la violazione coinvolge il diritto di difesa dell’imputato, pregiudicando la “partecipazione attiva e cosciente” del reale protagonista della vicenda processuale, al quale deve garantirsi l’effettivo esercizio dei diritti e delle facoltà di cui lo stesso è titolare.

Non consentire all’imputato, in particolare, di comprendere e quindi di conoscere le ragioni della sentenza, al fine di un concreto ed effettivo esercizio del proprio diritto alla difesa, non può ritenersi una mera nullità relativa.

In questa prospettiva, non appare sostenibile l’orientamento che considera la mancanza grafica della motivazione una nullità relativa, come tale sanabile ex art. 604 co. 5 c.p.p.

Devono infatti essere considerate le recenti riforme che il legislatore ha apportato agli artt. 546 co. 1 lett. e) e 581 c.p.p.

La lettera e) del primo comma dell’art. 546 c.p.p. si è ispirata, come si evince dai lavori preparatori, all’esigenza di “costruire… il modello legale della motivazione “in fatto” della decisione, nella quale risulti esplicitato il ragionamento sull’intero spettro dell’oggetto della prova” in quanto “solo la motivazione in fatto, rigorosamente costruita con riguardo alla tenuta sia informativa che logica della decisione, può costituire effettivo paradigma devolutivo sul quale posizionare la facoltà di impugnazione delle parti e i poteri di cognizione del giudice dell’impugnazione” (così la relazione illustrativa al disegno di legge A.C. n. 2798 di iniziativa governativa).

In tal modo la novella si è raccordata con la modifica dell’art. 581 c.p.p., che ha codificato l’onere di enunciazione specifica, a pena d’inammissibilità, dei motivi.

La motivazione è, infatti, il cardine insostituibile del giusto processo e il relativo obbligo va bilanciato con il diritto di difesa e con le esigenze tipiche del giusto processo: motivare una decisione significa spiegarla, giustificarla, per mettere il destinatario nelle condizioni, se del caso, di criticarla ed esplicare una difesa effettiva.

In questa prospettiva, viene data continuità all’esegesi che le Sezioni Unite avevano accolto già nel 2006 per il caso di sentenza non intellegibile, paragonandola alla omessa esposizione dei dati e delle valutazioni che devono giustificare il dispositivo, che comporta la violazione del diritto al contraddittorio e quindi una invalidità a regime intermedio, in quanto risulta così pregiudicata la possibilità di ragionata determinazione in vista dell’impugnazione e di efficace difesa (Sez. Un. n. 42363 del 28/11/2006, Giuffrida, Rv. 234916 -01; in senso adesivo, Sez. 5, n. 46124 del 26/09/2014, Dominioni, Rv. 261685 -01), oltre ad alcune pronunce di legittimità che, di recente, hanno fatto applicazione di tale principio di diritto estendendolo al caso di assenza grafica di motivazione (Sez. 4, n. 20767 del 19/04/2024, Sorrentini, non mass.).

L’obbligo di traduzione riguarda, per inciso, anche le sentenze di appello.

L’art. 1 della Direttiva 2010/64 ha chiarito, infatti, che il diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali si applica dal momento in cui la persona è messa a conoscenza dalle autorità competenti di uno Stato membro di essere indagata o imputata per un reato, “fino alla conclusione del procedimento, vale a dire fino alla decisione definitiva che stabilisce se abbiano commesso il reato, inclusi, se del caso, l’irrogazione della pena e l’esaurimento delle istanze in corso”.

Una volta stabilito che la sentenza, della quale sia obbligatoria la traduzione (perché non oggetto di rinuncia espressa), è un atto duplice, che si compone necessariamente di un originale redatto in italiano e di una copia tradotta, resta da chiarire quando la traduzione della sentenza debba considerarsi omessa.

L’art. 143 co. 2 c.p.p. stabilisce soltanto che la traduzione deve essere disposta “entro un termine congruo tale da consentire l’esercizio dei diritti e della facoltà della difesa”, non fornendo norme di coordinamento con le disposizioni che regolano in via ordinaria l’esercizio di tali prerogative.

Ne consegue che i tempi tecnici della traduzione non possono essere predeterminati (e quindi, per la sentenza, non possono essere contenuti nel segmento temporale indicato dalla suddetta pronuncia), in quanto correlati ad una molteplicità di fattori tra loro eterogenei (quali, ad esempio, la complessità del provvedimento che deve essere tradotto o l’elevato numero dei soggetti coinvolti nelle operazioni di traduzione) che spetta al giudice di merito valutare, affinché il termine per la traduzione sia “congruo”, mentre il conferimento dell’incarico per la traduzione della sentenza va circoscritto entro tempi certi, essendo già emersa al momento dell’adozione della “sentenza-decisione” la mancata conoscenza della lingua italiana da parte dell’imputato e quindi, in assenza di rinuncia espressa, la necessità dell’adempimento.

Deve ritenersi, pertanto, che la procedura di traduzione vada attivata (con il conferimento dell’incarico) al più tardi al momento in cui la “sentenza-documento” in lingua italiana è effettivamente depositata.

In tal modo l’imputato e la sua difesa sono posti in condizione di verificare l’adempimento tempestivo da parte del giudice dell’obbligo di traduzione, in vista dell’esercizio delle prerogative di impugnazione.

Quindi, se nessun incarico per la traduzione della sentenza risulti conferito entro tale spazio temporale, già si è realizzata la violazione del disposto dell’art. 143 co. 2 c.p.p.

In tal caso, una volta inquadrata la patologia processuale derivante dalla mancata traduzione come nullità generale a regime intermedio, la stessa deve essere eccepita o rilevata ai sensi degli art. 180 ss. c.p.p., nella specie, con l’impugnazione.

Ove invece la procedura di traduzione sia tempestivamente avviata, è solo dalla traduzione che l’imputato è posto in condizione di esercitare le sue prerogative difensive e, quindi, da tale adempimento potrà decorrere il termine per impugnare.

Fatte queste precisazioni, deve escludersi, in via di principio che, in presenza della traduzione omessa della sentenza, la parte sia tenuta ad allegare un concreto ed attuale pregiudizio, in quanto è inesigibile per il difensore illustrare i profili di doglianza prospettabili dall’imputato personalmente, visto che quest’ultimo è impossibilitato all’esame diretto dell’atto perché non tradotto in una lingua allo stesso comprensibile.

Quindi l’omessa traduzione della sentenza produce in re ipsa un concreto e reale pregiudizio alle prerogative difensive, non potendo chiedersi al difensore di sostituirsi all’imputato nella valutazione del pregiudizio subito, dal momento che solo il diretto interessato è in condizione di dargliene conto e spiegargliene compiutamente i motivi.

Qualora in particolare l’esecuzione della traduzione non abbia rispettato il “termine congruo”, previsto dall’art. 143 co. 2 c.p.p. (ad es. l’incarico per la traduzione è conferito non tempestivamente; il termine per la traduzione è incongruo), va precisato che: se essa sopraggiunge prima dello spirare del termine per impugnare la stessa determina lo slittamento del termine per impugnare, consentendo all’interessato di difendersi; se sopraggiunge successivamente, l’eccezione di nullità della sentenza per violazione dell’art. 143 c.p.p. dovrà confrontarsi con le prerogative difensive ancora disponibili per far valere l’interesse alla stessa (motivi aggiunti e/o conclusioni).

In conclusione, nel rispondere al primo quesito, le Sezioni unite hanno stabilito il seguente principio di diritto: “L’omessa traduzione della sentenza di primo grado all’imputato alloglotto che non comprende la lingua italiana integra una nullità generale a regime intermedio, ai sensi dell’art. 178 co. 1 lett. c) c.p.p.”

In ordine alla seconda questione rimessa all’organo nomofilattico, avente ad oggetto il contrasto interpretativo rilevato in ordine alla obbligatorietà della traduzione in una lingua nota all’imputato che non conosca la lingua italiana anche del decreto di citazione per il giudizio di appello.

Il nuovo testo dell’art. 143 co. 2 c.p.p., che annovera tra gli atti fondamentali per i quali è obbligatoria la traduzione per l’imputato che non conosce la lingua italiana anche i “decreti che dispongono… la citazione a giudizio”, ha dato luogo ad orientamenti divergenti sull’inserimento in tale categoria anche del “decreto di citazione per il giudizio di appello” di cui all’art. 601 c.p.p.

Il contrasto interpretativo si basa essenzialmente sulla funzione assegnata a tale atto, risultando invece pacifiche le conseguenze sanzionatorie (la suddetta nullità a regime intermedio) derivanti dall’inosservanza dell’obbligo della traduzione.

Secondo l’indirizzo che esclude la traduzione obbligatoria del decreto di citazione per il giudizio di appello, diversamente dal decreto che dispone il giudizio di primo grado (art. 429 c.p.p.), esso non contiene alcun elemento relativo all’accusa formulata contro l’imputato (in particolare, l’enunciazione del fatto e delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza e l’indicazione dei relativi articoli di legge che sono a lui già note).

Alcune pronunce, aderenti a tale indirizzo, hanno segnalato come decisivo il profilo della mancata deduzione da parte della difesa di un concreto pregiudizio derivante all’imputato dalla dedotta nullità (Sez. 2, n. 20394 del 07/04/2022, Riyad, cit.), rilevando come, in ogni caso, l’imputato, vieppiù se difeso di fiducia, sia sempre nella condizione di informarsi presso il difensore della data e del luogo di celebrazione del procedimento in appello, nonché del suo diritto a parteciparvi (Sez. 6, n. 46967 del 04/11/2021, Khan, cit.; Sez. 5, n. 15056 del 11/03/2019, Nasim, non massimata sul punto).

Ad approdi diversi è pervenuto altro orientamento che ritiene la omessa traduzione del decreto di citazione per il giudizio di appello quale causa di nullità di ordine generale a regime intermedio (Sez. 3, n. 12346 del 22/02/2024, Najhi, non mass.; Sez. 6, n. 3993 del 30/11/2023, dep. 2024, Dabo, Rv. 286113 -01; Sez. 4, n. 34533 del 15/06/2023, Emerue, non mass.; Sez. 5, n. 20035 del 01/03/2023, Vacariu, Rv. 284515 -01; Sez. 1, n. 4474 del 13/01/2023, Hakballa, non mass.).

Si è rilevato inoltre che l’art. 143 c.p.p. menziona esplicitamente, tra gli atti per i quali deve disporsi la traduzione nella lingua dell’imputato, del “decreto di citazione”, senza differenziare i gradi del giudizio né la tipologia di processo (giudizio di primo grado o di appello; rito a citazione diretta o meno), e che la traduzione di tale atto viene a realizzare la garanzia assoluta del diritto di partecipazione dell’imputato al processo, come delineata e sancita anche nel quadro sovranazionale (Sez. 4, n. 34533 del 15/06/2023, Emerue).

Secondo tale indirizzo, quindi, solo con la traduzione del decreto di citazione per il giudizio (qualunque esso sia) è data attuazione ai principi dell’equo processo, così come tratteggiato dalla Corte EDU, che assegna alla presenza fisica del diretto interessato all’andamento del processo e al diritto all’autodifesa la attuazione del principio del contraddittorio, ai sensi dell’art. 6, par. 3 CEDU, non sostituibili di regola dalla sola assistenza del difensore.

Gli argomenti posti alla base del primo indirizzo sono stati superati attraverso una condivisibile esegesi dell’art. 143 co. 2 c.p.p., assegnando alla citazione per il giudizio di appello la funzione di garanzia dell’equo processo e della partecipazione dell’imputato al processo.

Ed è questa, infatti, la funzione che la Corte di giustizia ha assegnato all’atto di citazione a comparire, indipendentemente dal contenere esso l’enunciazione dell’accusa, indicandolo, nell’ambito di applicazione della Direttiva 2010/64, come un “documento fondamentale”, la cui traduzione scritta deve essere fornita all’imputato, in forza dell’art. 3, par. 1: il rispetto del diritto a un processo equo e dei diritti della difesa presuppone che l’imputato riceva la convocazione all’udienza in una lingua che egli parla o comprende “altrimenti non si può ritenere che egli sia stato debitamente convocato e informato dei motivi di una tale convocazione” (Corte giustizia, 01/08/2022, TL, par. 64-65).

L’impossibilità per l’imputato, che non conosce la lingua italiana, di comprendere il contenuto, ritenuto dal legislatore, essenziale per la validità dell’atto di citazione, non può quindi che determinare la medesima sanzione processuale.

Come hanno chiarito Sez. Un. “Jakani” con riferimento al decreto che dispone il giudizio, il difetto di traduzione non determina una ipotesi di “omessa citazione dell’imputato” – in cui vi è la totale mancanza, storicamente accertata, di un atto idoneo alla instaurazione del rapporto processuale, la quale integra una nullità assoluta e insanabile (art. 179 co. 1 c.p.p.) – bensì dà luogo ad una nullità tra quelle contemplate dagli artt. 178, comma 1, lett. c) e 180 c.p.p., la cui deducibilità è soggetta a precisi termini di decadenza ed è sanata dalla comparizione della parte.

Pertanto, in base a quanto argomentato al punto che precede, le Sezioni unite enunciano un secondo principio di diritto:

“L’omessa traduzione del decreto di citazione in appello all’imputato alloglotto che non comprende la lingua italiana integra una nullità di ordine generale a regime intermedio, ove riguardante l’avvertimento all’imputato che non comparendo sarà giudicato in assenza, ovvero se manca o è insufficiente l’indicazione di uno dei requisiti previsti dall’art. 429, co.  1 lett. f) c.p.p.”.