Il segretario generale dell’ANM pone sette domande provocatorie agli avvocati favorevoli alla riforma Nordio: una risposta possibile alle prime due (Vincenzo Giglio)

Si legge nel web che il magistrato che ricopre il ruolo di segretario generale dell’ANM, ovviamente impegnato in prima fila a sostenere il fronte del NO alla separazione delle carriere, ha posto “7 DOMANDE (UN PO’ PROVOCATORIE MA NON TROPPO) AGLI AVVOCATI CHE SONO FAVOREVOLI ALLA RIFORMA NORDIO”, aggiungendo che “per un confronto costruttivo sono preferibili solo risposte argomentate”.

Le prime due domande sono state così letteralmente formulate:

1. La Corte Costituzionale nella sentenza n. 34/2020 ha affermato che “Le differenze che connotano le posizioni del pm e dell’avvocato difensore impediscono di ritenere che il principio di parità possa tradursi in un’assoluta simmetria di poteri e facoltà”. Ritenete davvero possibile e utile la trasformazione del pm nell’avvocato dell’accusa?

2. In nome della parità delle armi tra accusa e difesa, sareste disposti ad accettare che il pm non sia più costretto a portare davanti al giudice anche le prove a favore dell’imputato e che possa impugnare tutte le sentenze di assoluzione, facoltà che oggi gli è preclusa?”.

Terzultima Fermata è un blog e quindi, a tutti gli effetti, non è tra i destinatari del questionario.

È solo per questo che, desiderando condividere una piccola riflessione su questo campione di domande, lo fa nel proprio ambito, senza invadere spazi nei quali non ha titolo di entrare.

Prima domanda

L’interrogante cita la sentenza n. 34/2020 della Consulta e ne riporta il passaggio inserito nella prima domanda.

Si concorda, è un periodo significativo e proprio per questo lo si riporta più estesamente, evidenziando in neretto le parti che riteniamo vadano valorizzate:

Il processo penale è caratterizzato, infatti, da una asimmetria “strutturale” tra i due antagonisti principali. Le differenze che connotano le rispettive posizioni, «correlate alle diverse condizioni di operatività e ai differenti interessi dei quali, anche alla luce dei precetti costituzionali, le parti stesse sono portatrici – essendo l’una un organo pubblico che agisce nell’esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi; l’altra un soggetto privato che difende i propri diritti fondamentali (in primis, quello di libertà personale), sui quali inciderebbe una eventuale sentenza di condanna – impediscono di ritenere che il principio di parità debba (e possa) indefettibilmente tradursi, nella cornice di ogni singolo segmento dell’iter processuale, in un’assoluta simmetria di poteri e facoltà. Alterazioni di tale simmetria – tanto nell’una che nell’altra direzione (ossia tanto a vantaggio della parte pubblica che di quella privata) – sono invece compatibili con il principio di parità, ad una duplice condizione: e, cioè, che esse, per un verso, trovino un’adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del pubblico ministero, ovvero in esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale, anche in vista del completo sviluppo di finalità esse pure costituzionalmente rilevanti; e, per un altro verso, risultino comunque contenute – anche in un’ottica di complessivo riequilibrio dei poteri, avuto riguardo alle disparità di segno opposto riscontrabili in fasi del procedimento distinte da quelle in cui s’innesta la singola norma discriminatrice avuta di mira”.

Vero allora che esiste e ha ragione di esistere un’asimmetria strutturale tra accusa e difesa.

Vero anche che tale asimmetria è compatibile con il principio di parità ma a due condizioni: che le alterazioni dell’equilibrio siano giustificate dal ruolo istituzionale del PM e che siano contenute e compensate da disparità di segno opposto in altre fasi del procedimento.

Pare quindi che la sintesi fatta dall’interrogante, tendente com’è a sottolineare esclusivamente l’asimmetria, sia incompleta e impedisca di cogliere nella sua pienezza l’argomentare del giudice delle leggi.

Non si comprende poi in che modo da questa sintesi incompleta si dovrebbero ricavare l’impossibilità e l’inutilità della trasformazione del PM in un avvocato dell’accusa, così come non si comprende da quale parte della riforma costituzionale, e a rito penale invariato, ivi compresa la disposizione che obbliga il PM a svolgere indagini anche a favore dell’accusato, l’interrogante ricavi questa trasformazione.

Ed anche a voler ammettere che l’enfatizzazione del ruolo di parte del PM richiederà logicamente l’abolizione di quell’obbligo, sarebbe necessario che l’interrogante spiegasse quale perdita irrimediabile subirebbero gli accusati rispetto ad oggi, essendo fatto notorio che la consolidata giurisprudenza di legittimità esclude qualunque effetto penalizzante per violazioni dell’obbligo medesimo che sono quindi assimilate ad un mero flatus vocis, ed essendo ugualmente notorio che le cosiddette indagini a 360° gradi sono fenomeno rarissimo.

Seconda domanda

L’interrogante chiede questa volta se i destinatari della sua domanda siano disposti, sull’altare della parità delle armi tra accusa e difesa, “ad accettare che il pm non sia più costretto a portare davanti al giudice anche le prove a favore dell’imputato e che possa impugnare tutte le sentenze di assoluzione, facoltà che oggi gli è preclusa”.

È un quesito spiazzante, nel senso che si fatica a coglierne sia la genesi che il senso.

Riguardo alla perdita del PM “difensore”, basta richiamare quanto appena detto, rispondendo alla prima domanda.

Quanto alla preclusione all’impugnazione delle sentenze di assoluzione ed al favore che si dovrebbe riservare al suo superamento nell’ottica della parità effettiva, non occorre rispondere perché lo ha già fatto la Corte costituzionale, proprio con quella sentenza n. 34/2020 così cara all’interrogante, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 593 c.p.p., come sostituito dall’art. 2, comma 1, lettera a), D. lgs. 11/2018, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27, 97 e 111 Cost., dalla Corte d’appello di Messina.

E lo ha fatto affermando testualmente quanto segue:

questa Corte ha posto in evidenza come il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado da parte del pubblico ministero presenti «margini di “cedevolezza” più ampi, a fronte di esigenze contrapposte, rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell’imputato» (sentenza n. 26 del 2007).

Il potere di impugnazione della parte pubblica non può essere, infatti, configurato come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, enunciato dall’art. 112 Cost. (ex plurimis, sentenze n. 183 del 2017, n. 242 del 2009, n. 298 del 2008 e n. 280 del 1995; ordinanze n. 165 del 2003 e n. 347 del 2002); quando, invece, sull’altro fronte, il potere di impugnazione dell’imputato si correla anche al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa (art. 24 Cost.), che ne accresce la forza di resistenza al cospetto di sollecitazioni di segno inverso (sentenze n. 274 del 2009, n. 26 del 2007 e n. 98 del 1994)”.

Si spera e si pensa così di avere risposto alle due domande e di avere rispettato la condizione richiesta di farlo in modo argomentato.