La cassazione penale sezione 4 con la sentenza numero 37861/2025 ha rimarcato che le frequentazioni e le conversazioni confidenziali criptiche non sono condotte che possono far ricorrere la causa ostativa della colpa grave per il riconoscimento dell’ingiusta detenzione.
Fatto:
La Corte di appello di Bari, quale giudice della riparazione ha fondato il rigetto dell’istanza sulla ritenuta ricorrenza della causa ostativa integrata dalle frequentazioni e dalle interlocuzioni, peraltro criptate, tenute con l’imprenditore coinvolto P..
La corte di merito ha quindi individuato una condotta gravemente colposa dell’istante concretata dalle frequentazioni ambigue/interlocuzioni e dai colloqui tenuti nonché dal linguaggio adoperato, anche in termini criptati, con l’imprenditore P. ritenendo che “le conversazioni confidenziali restano nella loro ambiguità e nella loro inopportunità”.
Decisione:
L’art.314 comma 1 cod.proc.pen. prevede al primo comma che “chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave“.
In tema di equa riparazione per ingiusta detenzione, dunque, rappresenta causa impeditiva all’affermazione del diritto alla riparazione l’avere l’interessato dato causa, per dolo o per colpa grave, all’instaurazione o al mantenimento della custodia cautelare (art. 314, comma 1, ultima parte, cod. proc. pen.); l’assenza di tale causa, costituendo condizione necessaria al sorgere del diritto all’equa riparazione, deve essere accertata d’ufficio dal giudice, indipendentemente dalla deduzione della parte (cfr. sul punto questa Sez. 4, n. 34181 del 5.11.2002, Rv. 226004).
In proposito, le Sezioni Unite hanno da tempo precisato che, in tema di presupposti per la riparazione dell’ingiusta detenzione, deve intendersi dolosa – e conseguentemente idonea ad escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo, ai sensi dell’art. 314, primo comma, cod. proc. pen. – non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell’ “id quod plerumque accidit” secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo (Sez. Unite n. 43 del 13.12.1995 dep. 1996, Rv. 203637).
Ed inoltre, il giudice di merito, per stabilire se chi l’ha patita abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di stabilire, con valutazione ex ante – e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale (ex plurimis: Sez. U, n. 34559 del 26/06/2002, Rv. 222263 ; Sez. 4, n. 3359 del 22/09/2016, dep. 2017, Rv. 268952 ).
La colpa grave di cui all’art. 314 cod. proc. pen., quale elemento negativo della fattispecie integrante il diritto all’equa riparazione in oggetto, non necessita difatti di estrinsecarsi in condotte integranti, di per sé, reato, se tali, in forza di una valutazione ex ante, da causare o da concorrere a dare causa all’ordinanza cautelare (sul punto si vedano anche Sez. 4, n. 49613 del 19/10/2018, B., Rv. 273996 – 01, in motivazione, oltre che i precedenti ivi richiamati, tra cui Sez. 4, n. 9212 del 13/11/2013, dep. 2014, Rv. 259082).
A tali fini, è necessario uno specifico raffronto tra la condotta del richiedente (da ricostruirsi anche in considerazione della sentenza assolutoria) e le ragioni sottese all’intervento dell’autorità e/o alla sua persistenza (Sez. 3, n. 36336 del 19/06/2019, Rv. 277662, nonché Sez. 4, n. 27965 del 07/06/2001, Rv. 219686), con motivazione che deve apprezzare la sussistenza di condotte che rivelino dolo ovvero eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazioni di leggi o regolamenti che, se coerente e non manifestamente illogica, è incensurabile in sede di legittimità (Sez. 4, n. 27458 del 05/02/2019, Hosni, Rv. 276458 e anche, tra le altre, Sez. 4, n. 22642 del 21/03/2017, De Gregorio, Rv. 270001).
In sede di giudizio ex art. 314 cod.proc.pen. occorre, quindi, muovere non dagli elementi fondanti la misura cautelare bensì dall’accertamento della condotta del richiedente, anche in ragione dei fatti ritenuti provati o non esclusi dal giudice penale, per poi valutarla ai fini del giudizio circa la condizione ostativa del dolo o della colpa grave e del loro collegamento sinergico con l’intervento dell’autorità in relazione alle circostanze sottese all’ordinanza cautelare.
A tal fine il giudice della riparazione non può valorizzare elementi di fatto la cui verificazione sia stata esclusa dal giudice di merito, ovvero anche solo non accertata al di là di ogni ragionevole dubbio, con la conseguenza che non possono essere considerate ostative al diritto all’indennizzo condotte escluse sul piano fattuale o ritenute non sufficientemente provate con la sentenza di assoluzione (Sez. 4, n. 12228 del 10/01/2017, Quaresima, Rv. 270039; Sez. 4, n.46469 del 14/09/2018, Colandrea, Rv. 274350). 2.
Nella specie, l’ordinanza impugnata, non confrontandosi con i principi regolanti la materia, come dianzi esposti, e con un evidente errore di impostazione nel valutare la condotta ostativa dell’istante, si è posta nell’ottica originaria del giudice della cautela, soffermandosi anzi sulla valutazione del concetto di indizio ai fini della misura cautelare, ed analizzando gli elementi probatori posti a base dell’ordinanza applicativa della misura ed apprezzandone l’idoneità ad ingenerare il convincimento circa la sussistenza di elementi di responsabilità a carico del P..
Non ha, tuttavia, in alcun modo vagliato tali elementi alla luce della sentenza di assoluzione, al fine di accertare se gli stessi siano stati ritenuti provati o invece siano stati esclusi dal giudice del merito.
Il giudice della riparazione, proseguendo nel suo percorso logico, ha quindi individuato una condotta gravemente colposa dell’istante concretata dalle frequentazioni ambigue/interlocuzioni e dai colloqui tenuti nonché dal linguaggio adoperato, anche in termini criptati, con l’imprenditore P. ritenendo, infine, in maniera assolutamente generica e non circostanziata, che “le conversazioni confidenziali restano nella loro ambiguità e nella loro inopportunità”.
In conclusione l’ordinanza impugnata va annullata, con rinvio per un nuovo giudizio alla Corte d’appello di Bari cui demanda anche la regolamentazione tra le parti delle spese di questa fase di legittimità.
