Qualche giorno fa, mentre ragionavo con un collega sulle ragioni del SI alla separazione delle carriere di cui al referendum che per buona parte del 2026 occuperà dibattiti pubblici e privati, mi ha colpito, in particolare, una sua affermazione laddove sosteneva che la delicata questione non fosse di natura politica.
Ecco, è proprio sulla natura di questo dilemmatico quesito (separazione SÌ/separazione NO) che intendo ragionare con queste personali riflessioni.
Seguirò uno schema di ragionamento ad excludendum partendo dall’ idea della “non politicità” della questione in esame.
Ebbene, se la questione non ha natura politica, si dovrebbe sostenere che essa abbia natura squisitamente giudiziaria nel senso stretto del termine ovvero che sia vicenda concernente l’attività e i procedimenti relativi all’amministrazione della giustizia.
E del resto è incontrovertibile il dato che la separazione delle carriere riguardi il Potere giudiziario ovvero la funzione dello Stato che applica le leggi. Ed è altrettanto incontrovertibile che la Magistratura tutta, giudicante ed inquirente, si occupi della vicenda. Vieppiù dal momento che le carriere sulla cui separazione i cittadini saranno chiamati ad esprimersi con un SÌ o un NO sono proprio le “loro”.
Meno incontrovertibile e piuttosto opinabile è la preoccupazione, per non dire il terrore, di una certa magistratura di fronte al voto referendario ed a un suo possibile esito.
Sul punto, in particolare, sono convinta che la stragrande maggioranza della Magistratura – per intenderci, quella fatta di uomini e donne che quotidianamente, con i mezzi che hanno a disposizione, applicano le leggi per risolvere controversie legali e per punire chi non le ha rispettate – sia chiamata ad occuparsi della questione, senza tuttavia farne una storia di vita o di morte.
In un certo qual modo, quindi, se il tema riguardasse “solo” la maggioranza della Magistratura, quella sana appunto, credo che potrei condividere l’opinione del collega e sostenere, in perfetta coerenza con il ragionamento finora sostenuto, che la natura del quesito possa dichiaratamente essere “giudiziaria”.
Purtuttavia, temo che la paura di un numero ristretto di magistrati, realmente preoccupati del possibile esito a loro nefasto (la vittoria del SI) del referendum, sia tanta e tale da poter incidere sulla natura stessa della tornata referendaria.
Se allora guardiamo l’intera vicenda con gli occhi di questo numero pur ristretto di magistrati ma tremendamente potenti, si può forse vedere l’enorme portata politica che scaturirà dall’esito referendario la cui natura non potrà che essere tale.
Ed invero, in questo caso, ben si comprende come il cuore della vicenda passi solo marginalmente attraverso la separazione delle carriere poiché il tema che apre il quesito referendario è ben più ampio e profondo: è la GIUSTIZIA GIUSTA fatta di responsabilità civile dei magistrati, di abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, di risarcimenti equi e tempestivi a favore delle vittime di errori giudiziari ed ingiuste detenzione, di carriere separate e meritocratiche, tanto per i giudici quanto per i PM, di un più equo bilanciamento di poteri tra difesa ed accusa in sede processuale ed anche investigativa.
Personalmente sono convinta della natura “politica” della prossima tornata elettorale proprio perché la possibile vittoria dei SÌ aprirebbe auspicabilmente il vaso di Pandora alle riforme nella direzione della Giustizia Giusta. Quello stesso vaso che incredibilmente e ignobilmente nemmeno la vicenda “Palamara” – tanto ben illustrata dalla perfida penna di Sallusti – è riuscita ad aprire. Correva l’anno 2020.
Eccome se la questione è politica, in ballo c’è la tenuta della democrazia con la sua regola aurea: la separazione dei poteri dello Stato con la terzietà del giudice e l’indipendenza della magistratura.
Due concetti, quest’ultimi, collegati ma ben distinti: l’uno corre sul piano del processo e riguarda il giudice che lo presiede, l’altro riguarda l’istituzione nel suo complesso e serve a garantire che i singoli giudici possano essere “terzi” del processo che celebrano. Il primo principio è quindi un requisito funzionale e soggettivo ed è legato ai diritti fondamentali a partire dal giusto processo di cui all’art. 111 Cost.; il secondo è invece un requisito strutturale ed ordinamentale ed è legato alle garanzie che lo Stato deve predisporre al fine di rispettare i diritti fondamentali propri della giustizia giusta (artt. 104 e ss. Cost.).
Ebbene, il tema in oggetto riguarda questo secondo aspetto dell’ordine giudiziario, andando ad incidere – in caso di vittoria del SÌ – sull’assetto istituzionale e sulle garanzie costituzionali che, guarda caso, sono quelle che servono a proteggere i giudici dalle pressioni esterne e/o interne affinché possano essere davvero “terzi” nei singoli processi. In altre parole, possiamo sostenere che un giudice potrà essere terzo solo se e nella misura in cui la Magistratura sarà indipendente.
Ed è fuori discussione che le correnti – che rappresentano quel numero esiguo di magistrati ma enormemente potenti – minino fortemente l’indipendenza della magistratura. E quindi, come estirparle dal nostro sistema giudiziario? È verosimile ritenere che la separazione delle carriere e il sorteggio dei membri del CSM possano rappresentare un antidoto efficace contro quest’ultime.
Alla luce di queste considerazioni, ben si comprende allora come e quanto la questione in esame abbia una portata politica ancor più che giudiziaria essendo destinata ad incidere sulla vita privata delle persone dal momento che andrà a modificare la Costituzione, l’organizzazione e l’amministrazione dell’ordinamento giurisdizionale.
Ed allora non nascondiamoci dietro ai codici, agli ordini professionali, alle caste e al giuridichese, perché la questione all’oggetto occupa TUTTI, l’intera cittadinanza, nessuno escluso.
Parliamo chiaro e facciamoci capire.
