Affidamento in prova al servizio sociale: l’istante privo di lavoro non può essere escluso per ciò solo dall’accesso al beneficio (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 35684/2025, 29/31 ottobre 2025, ha ribadito che lo svolgimento di un’attività lavorativa non è un requisito indefettibile per l’accesso all’affidamento in prova al servizio sociale ma solo uno degli aspetti idonei a concorrere alla formazione del giudizio prognostico.

Provvedimento impugnato

Con ordinanza depositata il 6 giugno 2025 il Tribunale di sorveglianza ha rigettato l’istanza presentata il 23 agosto 2024 nell’interesse di LM, in atto sottoposto alla misura della detenzione domiciliare ex art. 56 legge n. 689/81, volta ad ottenere, ex art. 47 ord. pen., l’affidamento in prova al servizio sociale.

Ha evidenziato, a fondamento della decisione, che, non essendo stato prospettato nel corpo della richiesta lo svolgimento di alcuna attività lavorativa o socialmente utile da parte dell’istante, non sia possibile formulare un giudizio prognostico circa l’esistenza di una «buona prospettiva risocializzante necessaria per la concessione del beneficio di cui all’art. 47 ord. pen.».

Ricorso per cassazione

LM propone, con l’assistenza del difensore, ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo con il quale lamenta, ex art. 606, comma 1 lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’inosservanza o l’erronea applicazione dell’art. 47, ord. pen., nonché la contraddittorietà della motivazione del provvedimento impugnato. Il difensore lamenta che il percorso argomentativo dell’ordinanza – che fonda il decisum, in via esclusiva, sull’apprezzamento della mancanza per il condannato di una prospettiva lavorativa – si pone in patente contrasto con il canone ermeneutico ormai da tempo consolidatosi in seno al supremo consesso, canone che, peraltro, è stato, di recente, elevato dal legislatore a norma di legge attraverso l’inserimento, nel corpo dell’art. 47, ord. pen., del comma 2 bis, introdotto dall’art. 10 bis del d.l. n. 92/114, convertito in I. n. 112/24.

Decisione della Suprema Corte

Il ricorso è meritevole di accoglimento.

Va premesso che l’affidamento in prova al servizio sociale, disciplinato dall’art. 47 legge 26 luglio 1975, n. 354 (ord. pen.), è una misura alternativa alla detenzione carceraria che attua la finalità costituzionale rieducativa della pena e che può essere adottata, entro la generale cornice di ammissibilità prevista dalla legge, allorché, sulla base dell’osservazione della personalità del condannato condotta in istituto, o del comportamento da lui serbato in libertà, si ritenga che essa, anche attraverso l’adozione di opportune prescrizioni, possa contribuire ad una già avviata risocializzazione e prevenire così il pericolo di ricaduta nel reato.

Primo presupposto per l’ammissione al beneficio è, quindi, il fatto che il processo di emenda sia significativamente avviato, ancorché non sia richiesto il già conseguito ravvedimento, che caratterizza il diverso istituto della liberazione condizionale, previsto dal codice penale (Sez. 1, n. 43687 del 07/10/2010, Rv. 248984; Sez. 1, n. 26754 del 29/05/2009, Rv. 244654; Sez. 1, n. 3868 del 26/06/1995, Rv. 202413), tanto che, ove il presupposto dell’emenda non sia riscontrato, o non lo sia nella misura reputata adeguata, il condannato, se lo consentono il limite di pena – diversamente stabilito con riferimento alle varie ipotesi disciplinate dall’art. 47 ter legge 26 luglio 1975, n. 354 – ed il titolo di reato, può essere comunque ammesso alla detenzione domiciliare – misura alla quale, come detto, il ricorrente è in atto sottoposto – alla sola condizione che sia scongiurato il pericolo di commissione di nuovi reati (Sez. 1, n. 14962 del 17/03/2009, Rv. 243745).

Il giudizio in merito alla concessione del beneficio di cui all’art. 47, ord. pen., si  fonda sull’osservazione dell’evoluzione della personalità registratasi successivamente al fatto-reato, nella prospettiva di un ottimale reinserimento sociale: è infatti consolidato, presso la giurisprudenza di legittimità, l’indirizzo ermeneutico secondo cui «in tema di affidamento in prova al servizio sociale, ai fini del giudizio prognostico in ordine al buon esito della prova, il giudice, pur non potendo prescindere dalla natura e gravità dei reati commessi, dai precedenti penali e dai procedimenti penali eventualmente pendenti, deve valutare anche la condotta successivamente serbata dal condannato» (Sez. 1, n. 44992 del 17/09/2018, Rv. 273985), in tal senso deponendo il tenore letterale dell’art. 47, commi 2 e 3, legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui condiziona l’affidamento al convincimento che esso, anche attraverso le prescrizioni impartite al condannato, contribuisca alla sua rieducazione ed assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati.

Tra gli indicatori utilmente apprezzabili in detta ottica soccorrono allora la considerazione dell’assenza di nuove denunce, il ripudio delle pregresse condotte devianti, l’adesione a valori socialmente condivisi, l’attaccamento al contesto familiare e l’eventuale buona prospettiva di risocializzazione (Sez. 1, n. 44992 del 17 settembre 2018, Rv 273985).

Tra gli elementi positivi che possono legittimare un giudizio prognostico in ordine al buon esito della prova nell’ottica di prevenzione del pericolo di recidiva rientra, ancora, lo svolgimento di attività lavorativa da parte del condannato in stato di libertà o, per chi sia privo di opportunità di inserimento nel mondo del lavoro, anche l’ammissione ad un idoneo servizio di volontariato oppure ad un’attività di pubblica utilità senza remunerazione nelle forme e con le modalità di cui agli artt. 1, 2 e 4 del decreto del Ministero della giustizia del 26 marzo 2001, come stabilito dal comma 2 bis dell’art. 47 ord. pen. introdotto dal legislatore con d.l. n. 92/ 24 convertito dalla L. 112/24.

Lo svolgimento di un’attività lavorativa non si configura, però, come requisito indefettibile per l’accesso alla misura (Sez. 1, n. 26789 del 18/6/2009, Rv. 244735), ma costituisce solo uno degli aspetti idonei a concorrere alla formazione del giudizio prognostico.

Il confronto con i principi appena enunciati palesa la patente inadeguatezza della motivazione dell’ordinanza impugnata.

Nel suo corpo, infatti, il Tribunale di sorveglianza, dopo aver anzitutto richiamato i precedenti penali sofferti dal ricorrente, aver poi evidenziato l’assenza di annotazioni nel certificato dei carichi pendenti ed aver da ultimo operato un sintetico richiamo al contenuto delle relazioni delle forze dell’ordine, nelle quali si attesta che il condannato non ha violato la misura cui è sottoposto e non ha mantenuto frequentazione con soggetti di interesse operativo, ha però conclusivamente fondato il proprio giudizio sull’assorbente considerazione della mancata prospettazione di attività lavorativa. Così facendo ha trascurato di operare la prescritta valutazione sintetica di siffatto dato alla luce di tutti le altre acquisizioni al compendio, ha omesso, cioè, di apprezzare se queste ultime integrino o meno la valenza di indicatori positivi che possano legittimare un giudizio prognostico di buon esito della prova e di valutarne, comunque, il peso specifico rispetto all’unica circostanza di fatto oggetto di apprezzamento. Quanto appena illustrato impone l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di sorveglianza per un nuovo giudizio, libero nell’esito ma emendato dal segnalato profilo critico.