Cassazione, Sez. 6^, sentenza n. 25937/2025, 28 maggio/15 luglio 2025, ha chiarito che non integra il reato di esercizio abusivo di una professione previsto dall’art. 348 cod. pen., lo svolgimento, da parte di un componente della giunta comunale competente in materia di urbanistica, edilizia e lavori pubblici, di attività professionale nel settore dell’edilizia privata e pubblica nel territorio amministrato, in violazione dell’obbligo di astensione che l’art. 78, comma 3, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 pone a tutela dell’imparziale esercizio delle pubbliche funzioni.
La norma incriminatrice persegue, infatti, l’esercizio della professione in mancanza del prescritto titolo abilitativo statuale.
L’art. 348, cod. pen., è norma penale in bianco in quanto postula, come desumibile dall’avverbio “abusivamente”, l’esistenza di altre disposizioni di legge che stabiliscano le condizioni oggettive e soggettive in difetto delle quali non è consentito – ed è quindi abusivo – l’esercizio di determinate professioni (quelle per cui occorre l’abilitazione statale); trattasi di disposizioni che, essendo sottintese nell’art. 348, sono integrative della norma penale ed entrano a far parte del suo contenuto quasi per incorporazione, cosicché la violazione di esse si risolve in violazione della norma incriminatrice (Sez. 6, n. 2685 del 18/11/1993, dep. 1994, Rv. 198235 – 01).
Non tutte le norme che intervengono in materia di esercizio della professione sono però idonee a perimetrarne l’ambito oltre il quale l’attività esercitata può ritenersi abusivamente svolta. Ormai da tempo la Suprema Corte, a seguito di decisione del suo più prestigioso consesso, ha avuto modo di precisare come l’art. 348 cod. pen. è fattispecie che sanziona l’esercizio della professione senza l’abilitazione dello Stato e non anche i casi in cui, nello ambito della professione per la quale la persona è abilitata, siano richiesti ulteriori requisiti per svolgere particolari funzioni professionali (Sez. U, n. 2 del 26/04/1990, Soricelli, Rv. 184559- 01). Pertinente al tema sottoposto al vaglio del collegio è la parte della citata sentenza in cui si ribadisce come «la potestà esclusiva dello Stato ad abilitare all’esercizio di alcune professioni che più significativamente possono pregiudicare requisiti culturali o morali, interessi rilevanti dei cittadini, e perciò vuole penalmente sanzionare solo l’accesso alle predette professioni (…) e non le successive modalità di esercizio di una professione a cui si è già abilitati».
Le Sezioni unite Soricelli hanno, pertanto, escluso che integri l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 348, cod. pen. la condotta di chi «è stato abilitato all’esercizio della professione e non sia stato né sospeso né interdetto né dichiarato decaduto».
Significative risultano, allora, solo quelle norme che incidono sulla validità del titolo professionale (speciale abilitazione). Questo è il significato da attribuire a quelle sentenze di legittimità che hanno in concreto rilevato come non sia sufficiente una formale iscrizione all’albo, essendo invece indispensabile che tale iscrizione sia anche valida ed efficace. Conformi a detto indirizzo ermeneutico si rivelano tutte quelle decisioni che ritengono integrato il reato in ipotesi di sospensione dell’iscrizione o abilitazione o allorché all’iscrizione non corrisponda la relativa validità del titolo (in materia di sospensione, cfr., tra le tante, Sez. 6, n. 46963 del 03/11/2021, Rv. 282449 – 01).
