Avvocato e accordo (postumo) per un compenso sproporzionato: 254.919,00 euro valgono una censura? (Redazione)

L’avvocato che chieda compensi eccessivi e anche sproporzionati rispetto alla natura e alla quantità delle prestazioni svolte pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante (art. 29 cdf) perché lesivo del dovere di correttezza e probità a cui ciascun professionista è tenuto.

Peraltro, l’illecito in parola non è escluso dal fatto che vi sia un accordo sul compenso (art. 25 cdf) ovvero che il cliente accetti di provvedere al relativo pagamento. Ricordiamo, da ultimo, che l’accorso sul compenso va stipulato al momento del conferimento dell’incarico e non al momento in cui l’incarico è concluso.

Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Napoli, rel. Consales), sentenza n. 144 del 26 maggio 2025

Nota:
In senso conforme, da ultimo, CNF n. 80/2025, CNF n. 286/2024, CNF n. 15/2023.

Nella sentenza si legge:

Ha sostenuto il CDD di Perugia che è pacifico in atti e riconosciuto dallo stesso incolpato che, verificatasi la seconda ipotesi di cui all’accordo sottoscritto presso lo studio dell’Avv. [RICORRENTE], su un importo risarcitorio spettante agli attori, poi effettivamente riscosso dall’incolpato in virtù della procura conferitagli, pari ad € 529.140,01, lo stesso incassava complessivamente le seguenti somme: € 129.000,00 a titolo di onorario, € 75.919,17 quali spese liquidate in sentenza e successivo precetto, ed € 50.000,00 per l’eventuale giudizio in Corte di Appello, per un totale di € 254.919,00 e che l’Avv. [RICORRENTE] successivamente accreditava ai clienti la somma di € 137.000 ciascuno, per complessivi € 274.000.

Secondo la valutazione del CDD di Perugia l’attività espletata in favore degli assistiti non giustifica compensi così alti, come quelli previsti nell’accordo sottoscritto dall’avvocato [RICORRENTE] con i suoi clienti. L’assunto sostenuto dal CDD è corretto e sul punto si deve aggiungere che l’accordo in questione, anziché legittimare il compenso pattuito suscita non poche perplessità sulla condotta tenuta dal ricorrente nella vicenda in esame.

Infatti, l’accordo sul compenso, per quanto previsto dalla legge professionale, va stipulato al momento del conferimento dell’incarico e non al momento in cui l’incarico è concluso.

L’art. 13, comma 2, della Legge n. 247/2012 prevede infatti che “Il compenso spettante al professionista è pattuito di regola per iscritto all’atto del conferimento dell’incarico professionale”.

L’assunto è stato richiamato dalla Corte di Cassazione che con ordinanza n. 24213 dell’08.09.2021 ha stabilito che: “A pena di nullità, il patto di determinazione del compenso dell’avvocato deve essere redatto in forma scritta ai sensi dell’art.2233, comma 3, c.c., prescrizione che non può ritenersi implicitamente abrogata dalla L. 31/12/2012, n. 247, art.13, comma 2, la quale stabilisce che il compenso spettante al professionista sia pattuito di regola per iscritto, norma, questa, che non si riferisce alla forma del patto, ma indica che il momento in cui stipularlo è quello del conferimento dell’incarico.”

Infatti, non si comprende che senso possa avere un accordo sul compenso stipulato all’esito del giudizio in assenza di contestazione delle parti.

Dalla lettura dell’accordo e dall’istruttoria espletata non emerge che sia sorto tra il professionista e gli assistiti una divergenza o un contrasto che possa giustificare il contenuto dell’accordo in esame. Si legge nell’accordo: “Le parti riconoscono la straordinaria complessità della questione trattata e l’impegno straordinario profuso dall’avvocato e l’assoluto risultato vantaggioso sinora conseguito in termini risarcitori…….Gli assistiti hanno da sempre rappresentato di non essere in grado di sostenere gli oneri economici né per la difesa nell’ambito del procedimento penale e né gli oneri della causa civile.

In conseguenza di ciò all’Avvocato [RICORRENTE] non è stato mai versato alcunché ed anzi l’Avvocato [RICORRENTE] ha sostenuto personalmente per 17 anni ogni spesa necessaria alle difese.

Tali spese sono state di rilevante entità (oltre alle spese vive di procedura si considerino le spese necessarie all’interessamento di tutti i diversi consulenti medici ………….”

È evidente che l’accordo è stato predisposto unilateralmente dal professionista per ottenere riconoscimenti sull’attività e sul compenso in una situazione non oggettivamente paritetica tra le parti che hanno stipulato l’accordo.

Le modalità con cui si è proceduto alla sottoscrizione dell’accordo ed il lungo lasso di tempo intercorso tra il conferimento dell’incarico e la sottoscrizione dell’accordo rendono significativi i rilievi svolti dal sig. [AAA] con l’esposto che ha dato origine al procedimento disciplinare.

Si legge nell’esposto: “Faccio altresì presente che a causa della mia scarsa scolarizzazione e delle patologie per le quali da molti anni sono in cura al Dipartimento di salute mentale della ASL Umbria 1, senza una chiara spiegazione verbale non sarei riuscito a comprendere il contenuto dei documenti che l’avvocato mi chiedeva di firmare neanche leggendoli, ma l’avvocato non mi ha consentito di leggerli, non me ne ha rilasciata copie ed appena firmati la sua collaboratrice si è affrettata a portarli via …… L’avvocato non mi ha spiegato nulla, mi ha solo detto che c’erano da prendere dei soldi e che avrei dovuto dargli gli estremi del mio conto corrente; di lui mi fidavo o almeno fino a quel momento non avevo nessun sospetto.

Ai fini della decisione non possono rivestire nessun rilievo probatorio le notule giustificative del compenso redatte unilateralmente dal ricorrente nel corso del giudizio disciplinare, sulla notula penale è infatti indicata la data del 18.07.2022, mai sottoposte ai propri assistiti e non richiamate nell’accordo sottoscritto.

Quanto meno le notule prodotte, per poter assumere un rilievo probatorio, dovevano essere preventivamente sottoposte al vaglio di congruità del Consiglio dell’Ordine di appartenenza. Correttamente, dunque, il CDD di Perugia ha affermato che l’incolpato ha agito nella consapevolezza della sproporzione ed infatti solo la consapevolezza della sproporzione può averlo determinato alla stipula di un accordo in assenza di contestazioni e a distanza di circa diciotto anni dal conferimento dell’incarico.

La presenza di un accordo tra le parti e la stessa accettazione della misura del compenso da parte del cliente non sono di per sé elementi idonei ad escludere la responsabilità sotto il profilo deontologico dell’Avvocato, come ha avuto modo di chiarire il CNF con la Sentenza n. 286/2024, stabilendo che: “L’avvocato che chieda compensi eccessivi e anche sproporzionati rispetto alla natura e alla quantità delle prestazioni svolte pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante (art. 29 cdf) perché lesivo del dovere di correttezza e probità a cui ciascun professionista è tenuto. Peraltro, l’illecito in parola non è escluso dal fatto che vi sia un accordo sul compenso ovvero che il cliente accetti di provvedere al relativo pagamento.”

Con riferimento più specifico ai rilievi formulati dal ricorrente nell’atto di impugnazione sulla non adeguata considerazione dei documenti prodotti, si evidenzia che nel procedimento disciplinare vige il principio del c.d. libero convincimento in sede disciplinare, sicché il Giudice della deontologia ha ampio potere discrezionale nel valutare la rilevanza e la conferenza delle prove.

Principio questo affermato anche dalle SS.UU della Corte di Cassazione che con la sentenza n. 6277/2019 hanno statuito: “Anche in tema di procedimento disciplinare a carico degli avvocati, il giudice non ha l’obbligo di confutare esplicitamente le tesi non accolte né di effettuare una particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, essendo sufficiente a soddisfare l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente, non di tutte le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, bensì di quelle ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo; in altri termini, non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse.”

Per i rilievi esposti la decisione del CDD di Perugia va quindi confermata nella parte in cui riconosce la responsabilità disciplinare dell’Avv. [RICORRENTE].

Il ricorrente ha inoltre impugnato la decisione del CDD, in via subordinata, sotto il profilo dell’eccessività della sanzione adottata.

La sanzione espressamente prevista per la violazione dell’art. 29, comma 4, del CDF è quella della censura, che il CDD di Perugia ai sensi dell’art. 22 del CDF ha ritenuto di aumentare comminando la sanzione della sospensione di mesi tre dall’esercizio della professione. La possibilità di aumentare la sanzione è prevista nei casi più gravi, ma il CDD per motivare l’aumento della sanzione espone considerazioni non idonee a giustificarlo.

La tendenziale tipicità degli illeciti disciplinari per i quali sono previste sanzioni disciplinari tassativamente previste, non consente al giudicante di discostarsi dalla sanzione prevista se non con idonea e puntuale motivazione.

Nel caso in esame il CDD non ha fornito una motivazione adeguata a giustificare l’aumento rispetto alla sanzione prevista dalla norma violata, ricorrendo a considerazioni sicuramente 5 6 significative ai fini dell’accertamento della responsabilità, ma non tali da giustificare l’aggravamento previsto dall’art. 22 CDF.

La decisione del CDD di Perugia non offre una motivazione adeguata così da fare ritenere la violazione commessa dall’incolpato più grave rispetto a quella prevista dall’art. 29, comma 4, del CDF.

Per quanto esposto, la sanzione disciplinare applicabile nella vicenda in esame è la censura in sostituzione della sanzione disciplinare della sospensione dalla professione per la durata di mesi tre comminata dal CDD di Perugia

Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Napoli, rel. Consales), sentenza n. 144 del 26 maggio 2025