Possono bastare le generiche “frequentazioni” per negare il diritto alla riparazione per il carcere ingiustamente subito?
La Cassazione penale sezione 4 con la sentenza numero 35207/2025 ha esaminato la seguente vicenda giudiziaria:
La Corte di appello di Bari, quale giudice della riparazione, con l’ordinanza impugnata ha respinto la domanda con la quale D.M. ha chiesto la riparazione per la custodia cautelare subita nell’ambito di un procedimento penale per il reato di associazione mafiosa, dal quale è stato definitivamente assolto.
Avverso la suddetta ordinanza, tramite il difensore di fiducia, propone ricorso l’interessato, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 314 cod. proc. pen., avendo l’ordinanza impugnata fondato il rigetto dell’istanza sulle ritenute frequentazioni del ricorrente con soggetti pregiudicati ed associati mafiosi, senza alcuna doverosa ed indispensabile specificazione in ordine alla natura di tali frequentazioni ed alle ragioni per le quali i rapporti con tali soggetti potessero essere interpretati quali indizio di reità o di correità a carico del ricorrente ai fini della emissione della misura cautelare.
Decisione:
In linea generale, si deve osservare che il dolo o la colpa grave idonei ad escludere l’indennizzo per ingiusta detenzione devono sostanziarsi in comportamenti specifici che abbiano “dato causa” all’instaurazione dello stato privativo della libertà o abbiano “concorso a darvi causa”, sicché è ineludibile l’accertamento del rapporto causale, eziologico, tra tali condotte ed il provvedimento restrittivo della libertà personale.
Al riguardo si deve innanzitutto rilevare che è sempre necessario che il giudice della riparazione pervenga alla sua decisione di escludere il diritto in questione in base a dati di fatto certi, cioè ad elementi «accertati o non negati» (Sez. U n. 43 del 13/12/1995 – dep. 1996, Sarnataro, Rv. 203636); tale valutazione, quindi, non può essere operata sulla scorta di dati congetturali, non definitivamente comprovati non solo nella loro ontologica esistenza, ma anche nel rapporto eziologico tra la condotta tenuta e la sua idoneità a porsi come elemento determinativo dello stato di privazione della libertà, in riferimento alla fattispecie di reato per la quale il provvedimento restrittivo venne adottato (v. anche, in motivazione, Sez. 4, n. 10684 del 26/01/2010, Morra, non mass.).
È altrettanto evidente che giammai, in sede di riparazione per ingiusta detenzione, potrà essere attribuita decisiva importanza, considerandole ostative al diritto all’indennizzo, a condotte escluse o ritenute non sufficientemente provate (in senso accusatorio) con la sentenza di assoluzione (cfr. Sez. 4, n. 46469 del 14/09/2018, Colandrea, Rv. 274350; Sez. 4, n. 21598 del 15/4/2014, Teschio, non mass.; Sez. 4, n. 1573 del 18/12/1993 – dep. 1994, Tinacci, Rv. 198491).
Nel caso in esame, la Corte territoriale non si è attenuta a tali principi, avendo ipotizzato una condotta colposa dell’interessato, fondata, essenzialmente, sugli stessi elementi che avevano condotto all’arresto del medesimo.
Invero, la Corte territoriale accenna genericamente alla “mole di frequentazioni di pregiudicati (emergenti dalla richiesta cautelare)” che avrebbe giustificato l’emissione dell’ordinanza restrittiva. Secondo tale prospettiva, al momento dell’applicazione della misura cautelare “era ragionevolmente certo” il coinvolgimento del M. nel reato associativo ex art. 416-bis cod. pen. e la sussistenza delle relative condizioni generali di applicabilità della misura. In tal modo, tuttavia, i giudici della riparazione hanno confuso il piano della valutazione della gravità indiziaria ex art. 273 cod. proc. pen. ai fini della emissione della misura cautelare con quello della verifica ex post di una condotta ostativa, gravemente colposa, sinergica all’emissione della misura, ai sensi dell’art. 314 cod. proc. pen.
L’ordinanza impugnata è sorretta da mere affermazioni di stile che non specificano natura e modalità delle asserite “frequentazioni”, e soprattutto in che termini tali frequentazioni abbiano indotto il giudice della cautela ad emettere la misura cautelare nei confronti del M.
In tale prospettiva, peraltro, neanche vengono analizzate le argomentazioni della sentenza assolutoria, anche solo per verificare se quelle frequentazioni fossero state effettivamente confermate in sede di cognizione.
Va qui ribadito che, in base all’art. 314 cod. proc. pen., è ostativo alla riparazione il comportamento che, per dolo o colpa grave, abbia dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare subita, per cui, evidentemente, non tutte le “frequentazioni” sono tali da integrare la colpa ma solo quelle che sono da porre in relazione quanto meno di concausalità con il provvedimento restrittivo adottato (Sez. 4, n. 1921 del 20/12/2013, dep. 2014, Mannino, Rv. 258486 – 01).
Invero, in tema di riparazione per ingiusta detenzione, le “frequentazioni ambigue” con soggetti condannati nel medesimo o in diverso procedimento sono ostative al risarcimento, quale comportamento gravemente colposo del richiedente ai sensi dell’art. 314 cod. proc. pen., a condizione che emerga, quanto meno, una concausalità rispetto all’adozione, nei suoi confronti, del provvedimento applicativo della custodia cautelare. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione che aveva escluso la ravvisabilità della colpa grave in una telefonata intercorsa tra il richiedente e un soggetto imputato del medesimo reato in un diverso procedimento, in quanto relativa ad attività criminale diversa da quella per cui il primo era stato assolto). (Sez. 4, n. 850 del 28/09/2021, dep. 2022, Pg, Rv. 282565 – 01)
Tale principio discende dall’ineliminabile collegamento causale che, ai fini della esclusione dell’indennizzo, deve sussistere fra la condotta (cd. ostativa) dell’istante e l’emissione della misura custodiale.
In assenza di tale incidenza causale (o concausale), la condotta del richiedente non può mai dirsi ostativa all’indennizzo, venendo a mancare l’unico requisito che si frappone a quella che è altrimenti una detenzione “ingiusta”, in conseguenza dell’esito assolutorio del giudizio di cognizione sul titolo di reato per il quale era stata emessa la misura ovvero di un periodo di custodia cautelare superiore alla misura della pena inflitta (cfr. Sez. U, n. 51779 del 28/11/2013, Nicosia, Rv. 257606 – 01).
Nel caso in disamina, come già detto, la Corte della riparazione non ha in alcun modo esplicitato le ragioni per le quali le frequentazioni indicate avrebbero avuto incidenza causale nel determinare la detenzione; né ha verificato se tali frequentazioni fossero state confermate, e se sì in che termini, all’esito del giudizio di merito.
La motivazione dell’ordinanza impugnata, in definitiva, si palesa carente e giuridicamente viziata, nella misura in cui omette di individuare una specifica condotta ostativa causalmente rilevante, limitandosi a porre a fondamento della propria decisione generici elementi indiziari venuti meno a seguito della sentenza assolutoria.
Le considerazioni che precedono impongono l’annullamento dell’ordinanza impugnata
