La “cultura della giurisdizione”: un mito come Atlantide (Vincenzo Giglio)

L’immagine che accompagna questo post è ispirata ad Atlantide, un mito tra i più antichi e seducenti della storia umana.

Serviva un mito per presentare un’altra costruzione che, semmai è stata realtà, sta assumendo anch’essa, sempre più intensamente, dimensioni mitologiche: la “cultura della giurisdizione”.

Come è noto a chiunque si appassioni al dibattito sul progetto di separazione delle carriere tra PM e giudici fortemente voluto dall’UCPI e altrettanto fortemente osteggiato dall’ANM, l’argomento sempre speso da quest’ultima è che attuare la separazione equivale a privare di quella cultura i PM e questo non sarebbe affatto un bene.

C’è però una particolarità: non si comprende bene chi abbia formato questo prezioso sapere e seguendo quali percorsi, chi ne sia il detentore legittimo; in ultima analisi, non si sa neanche cosa sia.

Già, perché ogni parte la vede a modo suo.

Nell’impossibilità di rappresentare i mille rivoli del dibattito, mi limito ad un unico esempio.

Se si scorre il documento del 1979 che segnò l’atto di nascita di Unità per la Costituzione, la quale sarebbe diventata e rimasta a lungo la corrente maggioritaria della magistratura, si leggono questa parole:

la funzione giurisdizionale è da qualificare come un fondamentale servizio sociale, chiamata a rendere concrete le scelte normative in relazione ai bisogni degli individui e della convivenza sociale; che la funzione di garanzia imparziale, che caratterizza la giurisdizione, è stata affidata dal Costituente alla Magistratura come ordine autonomo, in una visione dialettica dei rapporti fra le istituzioni democratiche; che l’indipendenza della Magistratura, sia interna che esterna, è condizione perché la sua funzione di controllo di legalità possa svolgersi anche nei confronti di ogni altro potere, pubblico o privato, in modo da tutelare pienamente le libertà individuali e collettive; che una siffatta impostazione importa, altresì, la difesa della giurisdizione non solo come difesa dall’erosione dell’ambito di giurisdizione posta in atto da parte di altri poteri dello Stato, ma anche come rifiuto delle tendenze che scaricano sulla magistratura compiti e funzioni che non le sono propri“.

Parole e concetti nobili, senza dubbio, ma comunque rappresentativi di una visione che si pone in conflitto frontale non solo con istanze esterne alla magistratura ma anche con i programmi di componenti interne alla stessa.

L’avvocatura associata avrebbe infatti di che dolersi dell’avocazione esclusiva della giurisdizione, o meglio della cultura di cui è frutto, alla magistratura, senza riconoscere il minimo spazio alla difesa e alla sua connaturalità alla produzione di una corretta risposta di giustizia.

Lo stesso potrebbe fare l’accademia, ormai emarginata da un diritto sempre più giurisprudenziale e sempre più indifferente, quando non addirittura ostile, alla voce degli studiosi. Gli attacchi riservati qualche anno fa a Giovanni Fiandaca, “reo” di avere affermato che la tesi della cosiddetta trattativa Stato-mafia non si reggeva in piedi, ne sono una delle tante manifestazioni.

Lo stesso potrebbero fare, e in effetti hanno fatto, altre componenti della magistratura associata le quali, diversamente da Unità per la Costituzione, non pensano affatto che l’ordine giudiziario debba rifiutare compiti e funzioni che non gli sono propri e ritengono al contrario che la magistratura abbia un ruolo salvifico ed etico che va ben al di là della giurisdizione in senso stretto.

Non disponiamo dunque di una nozione condivisa di cultura della giurisdizione.

C’è poi una seconda questione: affermare che la separazione delle carriere implichi la perdita di quella cultura per i PM equivale a dire che oggi costoro ne sono pervasi, che se ne fanno condizionare in ogni atto della loro funzione.

Ma è davvero così? Si può davvero credere che l’odierna centralità dell’accusa pubblica nei procedimenti penali, così palese e vistosa da non richiedere nessun discorso giustificativo, sia solo un modo di essere di quella cultura? Si può teorizzare, senza sfiorare il ridicolo e il grottesco, che i continui assalti ai principi del contraddittorio e della parità di armi tra le parti, con la difesa sempre soccombente, siano la realizzazione plastica di quella cultura?

No, evidentemente non si può, quantomeno non si dovrebbe.

E c’è infine una terza questione che, per quanto apparentemente paradossale, merita di essere posta.

L’assunto da cui muovono i sostenitori della separazione delle carriere è che il giudice penale sia diventato servo del PM o quantomeno acriticamente propenso ad assecondarne ogni richiesta, perfino le più assurde e infondate.

Ma stanno davvero così le cose?

Se si osserva in modo sinottico la giurisprudenza di legittimità di questi nostri anni, fatta non da PM ma da giudici, si constata una progressiva erosione dello statuto garantistico degli individui sottoposti a procedimento penale.

Se si leggono le relazioni annuali del Ministero della Giustizia sull’uso del potere cautelare e si constata l’uso non sempre corretto di tale potere, è di giudici che si parla, delle loro attività funzionali, dei loro poteri di vigilanza e controllo e decisione sulle iniziative del PM.

E se si sposta lo sguardo sull’ambito delle intercettazioni e si scorgono prassi applicative talvolta disinvolte e censurabili, chi le ha varate se non giudici?

Si dovrebbe allora convenire che la tracimazione dei PM e l’infusione degli animal spirits accusatori nei giudizi penali sono avvenuti solo in quanto consentiti e condivisi da giudici.

Ecco allora che la cultura della giurisdizione acquisisce una sua dimensione mitica, esattamente come Atlantide, senza più molti contatti con la realtà.