Proprio in questi giorni abbiamo pubblicato un post a firma di Riccardo Radi (consultabile a questo link), sul caso davvero singolare di un collegio di Corte d’appello che ha puntellato una sentenza “facendo riferimenti a principi di legittimità non affermati o a sentenze di questa Corte di cassazione inesatte nel numero riportato”.
Il fatto, correttamente stigmatizzato dalla Corte di cassazione, ha destato non poca preoccupazione in quanto sintomo di una sciatteria descrittiva e valutativa intollerabile per un giudice di secondo grado.
È ovviamente ignoto a quali fonti abbia attinto l’estensore della sentenza ‘incriminata’ ma tra le varie spiegazioni ipotizzate vi è stata quella di un ricorso inconsulto ad una qualche piattaforma che offre servizi di intelligenza artificiale.
La conseguenza è un coro di voci, talune con intonazioni millenariste, che esprimono preoccupazione per questa nuova forma di analfabetismo di ritorno.
Tuttavia, ed è di questo che si vuole parlare qui, i riferimenti sbagliati possono essere generati da fonti umane piuttosto che artificiali e il danno quantomeno potenziale che ne deriva è assai più forte perché ancora oggi si accorda più fiducia all’umano se è un umano giudice e ancora di più se è un umano giudice di legittimità.
Parliamo quindi della Corte di cassazione, cioè dello stesso giudice che ha redarguito severamente la Corte territoriale pizzicata ad inventare precedenti.
Per quanto incredibile possa sembrare, può succedere ed è già successo che l’Ufficio del Massimario della Suprema Corte mistifichi, facendo malamente il suo lavoro, una decisione della stessa Suprema Corte e quindi metta in circolo un precedente sbagliato.
Ecco un esempio piuttosto recente.
Si legge testualmente in Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 45299/2023, udienza del 26 ottobre 2023, che “il contributo orale apportato dall’imputato mediante la resa delle dichiarazioni spontanee previste dall’art. 494 cod. proc. pen. non può in alcun modo essere assimilato a quello fornito in sede di esame ed essendo tra l’altro non assimilabile il relativo valore probatorio, con i conseguenti riflessi in tema di ampiezza dell’onere motivazionale gravante sul giudice, il quale non è tenuto ad argomentare sul contenuto delle dichiarazioni rese spontaneamente (sul punto, Sez. 2, n. 30653 del 24/09/2020, Rv. 279911, ha ritenuto che le dichiarazioni spontanee, rese ai sensi dell’art. 494 cod. proc. pen., dall’imputato sottrattosi al contradditorio, non sono idonee a confutare il quadro probatorio complessivamente considerato, non potendo essere equiparate alle dichiarazioni rese in sede di esame, né utilizzate come prove a carico di terzi)“.
Si fermi l’attenzione su uno dei più importanti postulati della decisione del collegio della quarta sezione penale: il giudice non è tenuto ad argomentare sul contenuto delle dichiarazioni spontanee.
Ci si sposti adesso sulla decisione della seconda sezione penale citata come precedente.
Vi si legge in effetti che “Le dichiarazioni spontanee, per giurisprudenza consolidata, non possono essere equiparate alle dichiarazioni rese in sede di esame nel contraddittorio tra le parti, né utilizzate come prove a carico di terzi (Sez. 1, n. 25239/2001, Rv. 219432; Sez. 6, n. 13682/1998, Rv. 212088; Sez. 1, 23/11/1993; Sez. 1 n. 1708/1993, Rv. 196402). Esse costituiscono semplicemente una forma autodifesa, espressione dello ius dicendi e dello ius postulandi riconosciuto all’imputato personalmente (Sez. 5, n. 4384/1998, Rv. 213105, vedi anche Sez. 5, 12603/2017, Rv. 269518; Sez. 2, n. 33666/2014, Rv. 260049)“.
Ma vi si legge anche che “La facoltà dell’imputato di rendere spontanee dichiarazioni in ogni stato del dibattimento è espressamente prevista e disciplinata dall’art. 494 c.p.p., tale facoltà, espressione del diritto di difesa, è stata accordata agli imputati dal giudice di appello il quale, diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, non ha affatto omesso di valutare le dichiarazioni ed esaminare il memoriale depositato all’udienza del 27/11/2018, ma li ha ritenuti inidonei a confutare l’ipotesi d’accusa non solo per la tardività delle dichiarazioni stesse, essendo intervenute solo in sede di appello, prima della discussione, rispetto ad un’istruttoria di primo grado molto articolata svoltasi alla presenza degli imputati e durata oltre quattro anni, ma anche perché tali dichiarazioni, sono risultate assolutamente generiche e contraddette dal reale dispiegarsi dei fatti“.
È adesso chiaro che il collegio della seconda sezione penale non ha affatto affermato che il giudice non è tenuto ad argomentare sul contenuto delle dichiarazioni spontanee, avendo al contrario dato atto che, nel caso sottoposto al suo esame, i giudici d’appello le avevano preso in considerazione per poi ritenerle inidonee sulla base di legittime valutazioni di merito (tardività, genericità, contraddittorietà).
Eppure, la massimazione della sua decisione è stata espressa in modo da suggerire a chi la consulti e se ne serva che “il giudice […] non è tenuto ad argomentare sul contenuto delle dichiarazioni rese spontaneamente”.
Ma come potrebbe conciliarsi questa affermazione con l’altra secondo la quale le dichiarazioni spontanee sono uno strumento di autodifesa, espressione dello ius dicendi e dello ius postulandi riconosciuti all’imputato, se poi si potesse destinarle all’oblio senza spendere neanche una parola?
Enigmi contemporanei, senza dubbio, ai quali segue un invito: l’attenzione alla qualità e alla correttezza dei precedenti non può essere limitata alle fonti, spesso di dubbia qualità, reperibili sul web e deve invece essere estesa anche a quelle imputabili agli interpreti più qualificati del diritto.
