La nozione di ravvedimento ai fini della liberazione condizionale del condannato e le sue particolarità per i collaboratori di giustizia (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 34655/2025, 17/23 ottobre 2025, ha messo a fuoco la nozione del ravvedimento del condannato cui è subordinata la concessione dei beneficio della liberazione condizionale.

Il presupposto per la concessione della liberazione condizionale al condannato che abbia scontato almeno trenta mesi e comunque almeno la metà della pena inflittagli quando il rimanente non superi cinque anni, ovvero almeno ventisei anni in caso di condanna all’ergastolo, è costituito dal sicuro ravvedimento (Corte cost. n. 282 del 1989 e n. 161 del 1997 per cui l’istituto, prevedendo l’avvenuto ravvedimento, rende la pena dell’ergastolo non in contrasto con il principio rieducativo di cui all’art. 27 Cost.)

A tal fine il Tribunale di Sorveglianza è tenuto a verificare se l’azione rieducativa abbia avuto come risultato il compiuto ravvedimento come esito di una revisione critica della vita antecedente e questo deve essere valutato in base alla condotta complessiva serbata dal condannato (Sez. 1, n. 26754 del 29/05/2009, Rv. 244654 – 01).

La nozione di ravvedimento, infatti, comprende il complesso dei comportamenti tenuti ed esteriorizzati dal soggetto durante il tempo dell’esecuzione della pena, obiettivamente idonei a dimostrare, anche sulla base del progressivo percorso trattamentale di rieducazione e recupero, la convinta revisione critica delle pregresse scelte criminali e a formulare – in termini di certezza ovvero di elevata e qualifica probabilità confinante con la certezza – un serio, affidabile e ragionevole giudizio prognostico di pragmatica conformazione della futura condotta di vita del condannato all’osservanza delle leggi in precedenza violate (Sez. 1, n. 19818 del 23/03/2021, Rv. 281366 – 02).

Ciò in quanto il presupposto del “sicuro ravvedimento” non consiste semplicemente nell’ordinaria buona condotta del condannato, necessaria per fruire dei benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, ma implica comportamenti positivi da cui poter desumere l’abbandono delle scelte criminali, tra i quali assume particolare significato la fattiva volontà del reo di eliminare o di attenuare le conseguenze dannose del reato (Sez. 1, n. 486 del 25/09/2015, dep. 2016, Rv. 265471 – 01) e, nei reati di omicidio, avere anche mostrato effettivo interessamento per la situazione morale e materiale delle persone offese (Sez. 1, n. 19818 del 23/03/2021, Rv. 281366 – 02).

Sotto tale profilo, in tema di liberazione condizionale, la nozione di “ravvedimento” implica la realizzazione, da parte del condannato, di comportamenti oggettivi dai quali desumere la netta scelta di revisione critica operata rispetto al proprio passato, che parta dal riconoscimento degli errori commessi e aderisca a nuovi modelli di vita socialmente accettati, anche compiendo atti e comportamenti di concreta apertura e disponibilità relazionale verso i parenti delle vittime dei gravi delitti commessi, pure se il soggetto è privo di possibilità economiche (Sez. 1, n. 45042 del 11/07/2014, Rv. 261269 – 01).

In una corretta prospettiva, d’altro canto, l’ulteriore requisito previsto dall’art. 176 cod. pen., costituito dall’adempimento delle obbligazioni civili, previsto salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierle, assume rilievo ai fini della verifica, non tanto dell’avvenuta eliminazione del pregiudizio cagionato, quanto piuttosto della serietà della revisione critica del condannato rispetto alle pregresse scelte criminali (Sez. 5, n. 11331 del 10/12/2019, dep. 2020, Rv. 279041 – 01) per cui il giudice deve considerare la manifestazione o meno di interesse per la vittima e di intendimenti di riparazione, se non sul piano materiale, quanto meno su quello morale, elementi che possano, rectius devono, essere legittimamente valutati dal giudice ai fini del giudizio in ordine alla sussistenza o meno del requisito del ravvedimento (Sez. 1, n. 12782 del 24/02/2021, Rv. 280864 – 01 in cui la Corte ha ritenuto immune da censure il provvedimento di diniego di concessione del beneficio nei confronti di un condannato, il quale si era limitato a dedurre una situazione di indisponibilità economica, senza fornire indicazioni utili a far ritenere la decisività della stessa ai fini dell’inosservanza dei doveri di ristoro nei confronti delle persone offese e senza far riferimento ad alcun percorso di revisione critica attivato dopo l’esecuzione della pena).

Il giudizio prognostico di ravvedimento, quindi, deve essere formulato sulla base di una valutazione complessiva che tanga conto del percorso trattamentale di rieducazione e recupero e che sia in grado di sostenere la previsione, in termini di certezza e non di mera probabilità, dell’evolversi in senso positivo della personalità del condannato verso la definitiva conformazione al quadro ordinamentale e sociale a suo tempo violato.

L’art. 16-nonies d.l. n. 8 del 1991, convertito con modificazioni dalla l. n. 82 del 1991, prevede la disciplina speciale da applicarsi ai collaboratori di giustizia, per i quali la concessione della liberazione condizionale è più agevole in quanto si prospetta, come unico presupposto formale di ammissibilità, l’avvenuta espiazione di una parte della pena.

Nello specifico, come da ultimo evidenziato in Sez. 1, n. 32865 del 30/9/2025, n.m., l’art. 16-nonies, comma 1, d.l. n. 8 del 1991 stabilisce che, nei confronti delle persone condannate per un delitto commesso per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale o per uno dei delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., che abbiano prestato, anche dopo la condanna, taluna delle condotte di collaborazione che consentono la concessione delle circostanze attenuanti previste dal Codice penale o da disposizioni speciali, la liberazione condizionale è disposta, su proposta ovvero sentiti i procuratori generali presso le Corti di appello interessati a norma dell’art. 11 dello stesso d.l. o il procuratore nazionale antimafia.

La stessa norma stabilisce, al comma 4, che il tribunale di sorveglianza, se ritiene che sussistano i presupposti di cui al comma 1, avuto riguardo all’importanza della collaborazione, sempre che sussista il ravvedimento e non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva, adotta il provvedimento indicato nel comma 1, anche in deroga alle vigenti disposizioni, ivi comprese quelle relative ai limiti di pena di cui all’art. 176 cod. pen.

A fronte di tale espressa previsione la pacifica giurisprudenza di legittimità ritiene che la liberazione condizionale possa essere, quindi, concessa al collaboratore non solo in deroga ai limiti di pena di cui all’art. 176 cod. pen. espressamente richiamati, ma anche alla generale previsione di cui all’art. 176, quarto comma, cod. pen., che subordina la concessione della liberazione condizionale all’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato.

Nella prospettiva indicata, d’altro canto, si deve ribadire che «la facoltà di concedere la suddetta liberazione condizionale o ammettere alle misure alternative i soggetti sottoposti a programma di protezione a norma del d.l. n. 8 del 1991, con le previste deroghe alle disposizioni ordinarie, non si estende, invece, ai presupposti relativi all’emenda di tali soggetti e alla finalità di conseguire la loro stabile rieducazione, per cui tali benefici postulano – fermo restando l’indefettibile accertamento delle condizioni soggettive di ammissibilità – che si tratti di persone per le quali si riscontrino le premesse meritorie e che comunque l’applicabilità in concreto del beneficio, in relazione alla loro personalità, consenta di escludere ragionevolmente la persistenza di un apprezzabile margine di pericolosità sociale e la conseguente probabilità di reiterazione di comportamenti penalmente illeciti, affinché risultino assicurate le condizioni relative all’emenda del soggetto e alle finalità di conseguirne la stabile rieducazione» (Sez. 1, n. 32865 del 30/9/2025, n.m.; Sez. 1, n. 35915 del 11/11/2014, dep. 2015, n. m.; Sez. 1, n. 5110 del 22/11/2011, dep. 2012, n. m.; Sez. 1, n. 5523 del 24/10/1996, Rv. 206185).

Ciò in quanto, come evidenziato sempre in Sez. 1, n. 32865 del 30/9/2025, n.m., «d’altra parte, ove non si accedesse a tale interpretazione dovrebbe pervenirsi all’aberrante conclusione secondo cui, trattandosi di soggetto sottoposto a programma di protezione, la concessione del beneficio verrebbe a risultare obbligatoria, senza alcuna possibilità di valutazione discrezionale da parte del giudice».

Questo, quindi, nel senso che la condotta collaborativa, anche se indicativa di una revisione critica, non deve essere tenuta presente da sola, ma va sempre posta in relazione ad altri determinanti parametri, non solo alla gravità dei reati in espiazione (Sez. 1, n. 1960 del 03/04/1998, Rv. 210421; Sez. 1, n. 8721 del 03/12/2003 dep. 2004, Rv. 228002).