Competenza per procedimenti riguardanti magistrati della DNAA: è della A.G. di Roma, salvi i fatti verificatisi nel territorio di uno specifico distretto nel quale sono applicati (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 33572/2025, 8/14 ottobre 2025, ha risolto un conflitto negativo tra il GIP del Tribunale di Perugia e il suo omologo del Tribunale di Roma in ordine alla competenza a provvedere su un’opposizione alla richiesta di archiviazione proposta da una persona offesa in un procedimento connesso ad un altro nel quale risultava parte offesa un magistrato della Direzionale nazionale antimafia e antiterrorismo.

La natura e la ratio dell’art. 11, cod. proc. pen. nella giurisprudenza costituzionale

L’art. 11, cod. proc. pen., in deroga alle regole ordinarie di attribuzione della competenza per territorio previste dalle precedenti disposizioni, attribuisce la competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati, siano essi indagati, imputati, persone offese o danneggiate dal reato, al giudice competente per materia «che ha sede nel capoluogo del distretto di Corte di appello determinato dalla legge», indicato nella tabella A allegata all’art. 1 disp. att. cod. proc. pen. 

La ratio di tale di eccezione al principio generale del giudice naturale è stata individuata dalla giurisprudenza costituzionale nell’esigenza di «tutelare il diritto di difesa del cittadino imputato e gli interessi del magistrato danneggiato o offeso dal reato», e, contestualmente, in quella di «garantire la terzietà e l’imparzialità del giudice», attraverso un sistema che, individuando ex ante ed in via astratta la regola disciplinatrice della competenza territoriale, non vulnera l’art. 25 Cost. (Corte cost., sent. n. 390 del 15 ottobre 1991).

Nella sentenza n. 381 del 30 settembre 1999 la Consulta ha chiarito che la scelta del legislatore di prevedere, in deroga alle regole generali, «una particolare disciplina della competenza per i procedimenti che riguardano i magistrati, quando il magistrato interessato al processo eserciti le sue funzioni nello stesso ufficio che sarebbe competente per il giudizio, oppure in altro ufficio a questo collegato da un rapporto organizzativo o funzionale, sì da poter far dubitare della indipendenza ed imparzialità del giudice» è pienamente rispettosa dei princìpi costituzionali, in particolare di quelli posti a presidio dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice, «che costituiscono presupposto e requisito essenziale di ogni giusto processo». 

Tale meccanismo di spostamento della competenza anche se determinata dalla qualità di uno dei soggetti del processo, prosegue il Giudice delle leggi, «rimane nell’ambito della logica propria dei criteri di determinazione della competenza, in quanto ancorata ad elementi oggettivi di luogo e di tempo (nella specie costituiti dall’ufficio presso il quale il magistrato esercita o esercitava le funzioni al momento del fatto)». 

Trattandosi, tuttavia, di spostamento eccezionale dell’ordinaria competenza territoriale fondata sulle funzioni svolte da uno dei soggetti del processo è, però, «sempre necessario che siano delimitati l’estensione e l’ambito territoriale della deroga. Altrimenti, considerando nella sua più ampia latitudine l’incidenza di tali funzioni ed il rapporto di colleganza tra magistrato- giudice e magistrato-parte del processo, la deroga alla competenza sarebbe tale da potersi tradurre nella incompetenza di qualsiasi ufficio giudiziario, sino a non rendere possibile l’esercizio della stessa giurisdizione. Questi limiti non sono superati dal criterio territoriale e temporale di deroga alla ordinaria competenza stabilito dall’art. 11 cod. proc. pen., che «attribuisce rilievo, dal punto di vista territoriale, alle funzioni esercitate dal magistrato nell’ambito del distretto giudiziario, che costituisce una unità organizzativa e funzionale che comprende l’ufficio di appartenenza, e, dal punto di vista temporale, alla coincidenza di tali funzioni con il servizio prestato al momento del giudizio o al momento del fatto per il quale si procede».

Nell’ordinanza n. 163 del 2013, la Corte costituzionale, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale «dell’art. 11 del codice di procedura penale, nella parte in cui non comprende nella disciplina dei procedimenti riguardanti magistrati – che attribuisce ai giudici di altro distretto la relativa cognizione quando il fatto riguardi persona che svolga funzioni giudiziarie nel distretto del giudice che sarebbe competente secondo le regole ordinarie, oppure le svolgesse al momento del fatto – il caso in cui la persona interessata abbia cessato di appartenere all’ordine giudiziario, quanto meno per un apprezzabile lasso di tempo successivo alla detta cessazione» ha ribadito che «spetta al legislatore il compito di individuare, secondo criteri di ragionevolezza, situazioni di consuetudine professionale e di colleganza tali da giustificare, in via generale ed astratta, una deroga agli ordinari criteri di determinazione della competenza, tra i quali è compreso il nesso tra luogo del fatto e luogo del giudizio (da ultimo, sentenze n. 432 del 2008, n. 287 del 2007, n. 147 del 2004, n. 332 del 2003, n. 444 del 2002, n. 349 del 2000)».

Aggiunge la Consulta che, tenuto conto della «necessità di ridurre al minimo indispensabile, in base a criteri di immediato apprezzamento, l’eccezione ai criteri generali» e comunque della previsione da parte dell’ordinamento di altri istituti, quelli della astensione e della ricusazione, finalizzati a dare «fisiologica soluzione alle eventuali particolarità di singoli casi», in subiecta materia non è possibile fare ricorso all’analogia ampliando a casi simili la sfera di applicazione del secondo comma dell’art. 11 (“Se nel distretto determinato ai sensi del comma 1 il magistrato stesso è venuto ad esercitare le proprie funzioni in un momento successivo a quello del fatto, è competente il giudice che ha sede nel capoluogo del diverso distretto di corte d’appello determinato ai sensi del medesimo comma 1.”).

La giurisprudenza di legittimità

Non è stato mai messo in discussione che la disciplina dell’art. 11 cod. proc. pen., in ragione del chiaro tenore letterale della disposizione codicistica (che si riferisce espressamente ai «procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di … che secondo le norme di questo capo sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d’appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto»), non trova applicazione con riguardo ai magistrati della Corte di cassazione, trattandosi di ufficio giudiziario avente competenza nazionale»: nello statuire il principio, Sez. 6, n. 30760 del 13/05/2009, Neretti, Rv. 244641 – 01, ha chiarito che «La norma in esame, nel prevedere una deroga alle ordinarie regole di competenza per l’ipotesi in cui in base ad esse la cognizione dei procedimenti riguardanti un magistrato apparterrebbe ad “un ufficio giudiziario compreso nel distretto di Corte d’appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni”, non può che riferirsi ai giudici di merito e ai magistrati del P.M. addetti ad un Tribunale o ad una Corte di Appello», non potendo, dunque trovare applicazione «in relazione ai processi riguardanti magistrati della Corte di cassazione, la quale, avendo competenza nazionale, non appartiene ad alcun distretto di Corte di Appello».

La giurisprudenza civile

Tale scelta è stata condivisa anche dalla giurisprudenza civile.

Le Sezioni unite della Corte di cassazione che, con riferimento ai giudizi di responsabilità civile promossi contro lo Stato, in base alla l. n. 117 del 1988, hanno affermato il principio secondo cui «quando più giudici, di merito e di legittimità, cooperino a fatti dolosi o colposi anche diversi nell’ambito della stessa vicenda giudiziaria, la causa è necessariamente unitaria e la competenza per territorio deve essere attribuita per tutti secondo il criterio di cui all’art. 11 c.p.p., richiamato dall’art. 4, comma 1, l. cit.; qualora, invece, tali giudizi abbiano ad oggetto solo i comportamenti, atti o provvedimenti dei magistrati della Corte di cassazione, non si applica lo spostamento di competenza previsto dal menzionato art. 11 c.p.p. e, pertanto, la competenza per territorio è attribuita ai sensi dell’art. 25 c.p.c. secondo la regola del “forum commissi delicti”, sicché spetta in ogni caso al Tribunale di Roma, quale foro del luogo in cui e sorta l’obbligazione» (Cass. Civ. Sez. U. n. 14842 del 07/06/2018, nella cui motivazione si legge che «la Corte di cassazione è … un ufficio di rilevanza nazionale, riguardo al quale non è prospettabile alcun collegamento con un distretto di corte d’appello geograficamente inteso. La circostanza che la Suprema Corte operi a Roma, come previsto dall’art. 65, secondo comma, del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, si collega al fatto che essa è «organo supremo di giustizia» che «assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni» (art. 65, primo comma, cit.); e la sua collocazione è conseguente al ruolo di capitale d’Italia che spetta alla città di Roma. Ciò non significa, però, che la Corte di legittimità faccia parte o abbia qualche forma di collegamento con il distretto della Corte d’appello di Roma … Le Sezioni Unite sono consapevoli del fatto che in questo modo potrebbe, in astratto, porsi un problema di concentrazione del contenzioso presso un’unica sede giudiziaria. Si tratta, però, di un rischio contenuto, perché tale ipotesi riguarda una parte limitata dei giudizi di responsabilità civile, cioè appunto quelli che hanno ad oggetto i comportamenti dei soli magistrati della Corte di cassazione con esclusione di quelli di merito».

Nella stessa prospettiva Cass. Civ. Sez. U, n. 24631 del 04/11/2020, Rv. 659452 – 03), ha affermato che «nei procedimenti dinanzi alla Sezione disciplinare del CSM non trovano applicazione le regole di attribuzione della competenza per territorio dettate nell’art.11 c.p.p., avuto riguardo all’unicità dell’organo giurisdizionale, che opera a livello nazionale»; mentre Cass. Civ. Sez. 6 – 1, n. 612 del 11/01/2022, Rv. 663914 – 01, occupandosi dei giudizi di responsabilità civile promossi contro lo Stato che abbiano ad oggetto comportamenti, atti o provvedimenti dei magistrati appartenenti alla sezione giurisdizionale centrale d’appello della Corte dei Conti, ha statuito che «non si applica lo spostamento di competenza previsto dall’art. 11 c.p.p., poiché agli uffici di vertice delle giurisdizioni speciali è del tutto estraneo il concetto di “ufficio compreso nel distretto di Corte d’appello”, menzionato in tale articolo, e la loro rilevanza nazionale consente di estendere ai magistrati che vi appartengono la disciplina prevista per i giudici di legittimità, con la conseguenza che la cognizione della causa è sempre attribuita, secondo i criteri ordinari, al Tribunale di Roma, ai sensi dell’art. 25 c.p.c., quale “forum commissi delicti”».

La competenza per i procedimenti che vedono quale indagato, imputato, persona offesa o persona danneggiata dal reato un magistrato addetto alla Direzione nazionale antimafia

L’art. 11-bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 2 legge 2 dicembre 1998, n. 420, stabilisce che la competenza per i procedimenti che vedono quale indagato, imputato, persona offesa o persona danneggiata dal reato un magistrato addetto alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo appartiene al «giudice determinato ai sensi dell’articolo 11». 

Come già chiarito dalla sentenza Sez. 1, n. 43866 del 23/10/2024, Rv. 287100 – 01, non si tratta di una disposizione che detta una regola di attribuzione della competenza valida per tutti i procedimenti in cui assume la qualità di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato un magistrato addetto alla Direzione nazionale antimafia di cui all’articolo 76- bis dell’ordinamento giudiziario approvato con regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12.

La Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo è istituita ai sensi dell’art. 103 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (e, prima dell’entrata in vigore del codice antimafia, ai sensi dell’art. 76-bis R.D. 30 gennaio 1941, n. 12), «nell’ambito della Procura generale della Corte di cassazione»: la sua competenza, estesa all’intero territorio nazionale.

Di conseguenza, i magistrati assegnati alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo che non svolgono funzioni territoriali, o meglio “distrettuali”, ma, al pari di quelli in servizio presso la Corte di cassazione o presso la Procura generale della Corte di cassazione o dei componenti della Sezione disciplinare del CSM o della Sezione giurisdizionale centrale d’appello della Corte dei Conti, hanno una dimensione operativa di carattere nazionale, continuano ad essere sottratti all’applicazione della disciplina dell’art. 11, cod. proc. pen., il cui criterio territoriale e temporale di deroga alla ordinaria competenza per territorio è ancorato dall’art. 11 cod. proc. pen. in via esclusiva sulle funzioni esercitate dal magistrato nell’ambito del “distretto giudiziario”.

Non a caso Sez. U, n. 292 del 15/12/2004, dep. 2005, Scabbia, Rv. 229633 – 01, nell’affrontare dell’applicabilità dell’art. 11 cod. proc. pen. alla particolare categoria di giudici costituita all’epoca dai vice pretori ha tenuto a precisare che il legislatore rendendo, alla luce della formulazione dell’art. 11 cod. proc. pen., rilevante ogni procedimento attribuibile a un qualsiasi ufficio dell’intero distretto nel cui ambito operi il soggetto interessato «ha voluto evidentemente rafforzare in modo particolare la tutela dell’immagine della terzietà agli occhi del pubblico, al di là del grado più o meno intenso dei rapporti intersoggettivi di colleganza, che s’instaurano all’interno dell’area distrettuale. In relazione alla “ratio”, così definita, della disciplina speciale vigente, è evidente che il presupposto saliente per l’insorgere di quella situazione di comune appartenenza, con il connesso più agevole sviluppo di relazioni soggettive, da cui scaturisce, o si teme possa scaturire, il condizionamento psicologico idoneo a minare l’imparzialità del giudizio, è costituito dalla stabilità, e cioè dalla continuatività riconosciuta formalmente per un arco temporale significativo, dell’incarico assunto dal magistrato onorario coinvolto nel procedimento penale, in un ufficio giudiziario compreso nel distretto ove il procedimento stesso dovrebbe essere celebrato».

Come si evince dal richiamo integrale alla disciplina dell’art. 11 cod. proc. pen., l’ambito di applicazione dell’art. 11-bis, cod. proc. pen. è circoscritto ai soli procedimenti in cui il magistrato addetto alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, che assume la qualità di indagato, imputato, persona offesa o persona danneggiata dal reato, sia stato applicato ad una Direzione distrettuale antimafia ai sensi dell’art. 105 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, quindi ad un Ufficio che competenza “distrettuale”, sempre che il fatto oggetto del procedimento penale rientri, ordinariamente, nella competenza dell’ufficio giudiziario presso il quale è stata disposta.

L’art. 105, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, dispone che i magistrati addetti alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo possono essere applicati temporaneamente alle direzioni distrettuali, per la trattazione dei procedimenti relativi ai delitti indicati nei commi 3-bis e 3-quater dell’art. 51 cod. proc. pen., quando gli stessi siano «di particolare complessità» o «richiedono specifiche esperienze e competenze professionali». 

Si tratta di un’ipotesi di applicazione che, contrariamente a quelle previste per i magistrati della Corte di cassazione e della Procura generale o dalla normazione secondaria (per esempio dagli artt. 18 e 131 della Circolare CSM del 20.6.2018 e successive modifiche per assicurare il regolare svolgimento della funzione giurisdizionale dell’ufficio di provenienza e la definizione di uno o più procedimenti penali già incardinati) oppure dalla legislazione speciale (per esempio nella materia della protezione internazionale), ha carattere non eccezionale ma per così dire fisiologico ed è stata perciò ritenuta dal legislatore meritevole di una disciplina specifica destinata ad integrarsi con quella, prevista dai precedenti artt. da 8 a 10 cod. pen., applicabile a tutti gli appartenenti alle giurisdizioni a carattere nazionale, compresi i magistrati addetti alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, in ragione dell’assenza di un collegamento di natura funzionale ed organica con una porzione del territorio.

Quando tale peculiare applicazione in un singolo distretto ha luogo e, quindi, si verifica, un vero e proprio incardinamento stabile, anche se temporaneo, del magistrato presso l’ufficio di destinazione, trova applicazione, per tutto il tempo della sua durata, la speciale competenza derogatoria prevista dall’art. 11-bis, cod. proc. pen., quando il fatto oggetto del procedimento penale rientri, ordinariamente, nella competenza dell’ufficio giudiziario presso il quale è stata disposta l’applicazione, sicché il procedimento che sarebbe stato di competenza dell’ufficio giudiziario ricompreso nel distretto di applicazione diviene di competenza dell’ufficio giudiziario individuato ai sensi degli artt. 11, comma 1, cod. proc. pen., e 1 disp. att. cod. proc. pen.

Confutazione delle obiezioni della Procura generale presso la Suprema Corte

Non convincono gli argomenti utilizzati in altri procedimenti dalla Procura generale presso la Corte di legittimità per sostenere la tesi contraria della competenza dell’autorità giudiziaria di Perugia.

Non è decisivo il tenore letterale dell’art. 11-bis, cod. proc. pen.

Tale disposizione non può essere letta isolatamente; va necessariamente coordinata con quella dell’art. 11 cod. proc. pen., espressamente richiamata, che indica tra i presupposti della regola attributiva della competenza speciale e derogatoria il carattere distrettuale dell’ufficio in cui il magistrato “esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto” («I procedimenti   … sono di competenza del giudice determinato ai sensi dell’articolo 11»). Equivoci sono i lavori preparatori.

La relazione esplicativa dell’introduzione della nuova disposizione fa effettivamente riferimento alla necessità di estendere ai magistrati della Direzione nazionale antimafia «lo stesso criterio valido per gli altri magistrati» ma tale equiparazione, in assenza di altre specificazioni, sembra essere riferita non agli altri magistrati di merito ma ai magistrati, come quelli addetti alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, assegnati alle giurisdizioni con competenza nazionale. Non modificano il quadro normativo in modo così rilevante da consentire una interpretazione sistematica diversa da quella proposta né il d.lgs. n. 25 del 2006, che attribuisce al Consiglio giudiziario presso la Corte d’appello di Roma (e non al Consiglio Direttivo della Corte di cassazione) la competenza su pareri, promozioni, avanzamenti e sullo status dei magistrati della DNAA né il d.lgs. n. 35 del 2008 in materia di elezioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari

Tali norme, peraltro successive all’introduzione dell’art. 11-bis, cod. proc. pen., prevedono un collegamento amministrativo e ordinamentale tra Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo e Corte di appello di Roma, ma non prevedono, neanche indirettamente, alcuna interferenza tra i due uffici citati sul piano dell’attività giurisdizionale così pregante da far dubitare della indipendenza ed imparzialità del magistrati collegati e da imporre , in assenza di una specifica previsione legislativa, la deroga agli ordinari criteri di determinazione della competenza, deroga che, come chiarito dalle ricordate pronunce della Corte costituzionale, costituisce un istituto eccezionale.

In conclusione, la tesi alternativa a quella accolta dal collegio si scontra con un dato insuperabile, evincibile dalla chiara lettera dell’art. 11 cod. proc. pen. richiamato espressamente dal successivo art. 11-bis: il criterio di collegamento costituito dall’esercizio delle funzioni in un distretto di corte di appello non è in nessun modo riferibile ai magistrati addetti alla Direzione Nazionale antimafia, che svolgono attività giurisdizionale in ambito nazionale, e nemmeno consente per le stesse ragioni di individuare il distretto viciniore nel cui ambito eserciti le funzioni il giudice da ritenere competente, a nulla rilevando a tal fine che la sede di servizio, per ragioni logistiche e pratiche di organizzazione del servizio, sia la città di Roma.

Sulla scorta delle considerazioni che precedono, deve rilevarsi che, dovendosi sempre guardare – a mente dell’art. 11 cod. proc. pen. – al «distretto di corte d’appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni», e venendo nel caso di specie in rilievo la posizione del Procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo, che quelle funzioni svolge in relazione all’intero territorio nazionale, deve, dunque, essere dichiarata la competenza del GIP di Roma, al quale vanno trasmessi gli atti per il prosieguo.