Populismo politico e potere giudiziario: solo conflitto o è possibile anche il concorso? (Vincenzo Giglio)

Il 3 giugno 2025 a Strasburgo si è tenuta la conferenza per il 40° anniversario della fondazione di MEDEL (Magistrats Européens pour la Démocratie et les Libertés).

Qualche giorno fa la rivista Questione Giustizia ha pubblicato in versione bilingue (italiano e l’originale inglese) l’intervento in quell’occasione di Anna Adamska-Gallant, componente polacca della Corte europea dei diritti umani (a questo link per la consultazione).

Il titolo, “Il potere giudiziario nell’età del populismo”, fa immediatamente comprendere l’oggetto dello scritto e, insieme, la prospettiva della sua Autrice.

La sua lettura conferma pienamente, già dall’incipit, le impressioni di partenza: “In anni recenti, l’ascesa globale dei movimenti populisti ha sottoposto le istituzioni democratiche ad una tensione senza precedenti. In particolare, il potere giudiziario spicca quale – al tempo stesso – guardiano dell’ordine costituzionale e frequente bersaglio dei populisti. Il suo ruolo nel sostegno allo stato di diritto, nella protezione dei diritti individuali e nel contenere gli eccessi dei poteri esecutivo e legislativo non è mai stato più vitale, né più vulnerabile”. 

Emerge così la proposizione centrale della Adamska-Gallant: il populismo e il potere giudiziario sono agli antipodi; il proliferare del primo spinge nell’angolo il secondo in un crescendo di campagne denigratorie e diffamatorie, minacce, iniziative disciplinari strumentali; l’obiettivo dei movimenti politici populisti, tanto più laddove nei Paesi ove sono maggioritari e occupano le istituzioni, è l’erosione dell’indipendenza della giurisdizione nel tentativo di renderla obbediente alla politica.

In questa cornice sconfortante l’associazionismo giudiziario ha un compito vitale: gli spetta schierarsi a difesa dei “valori fondamentali dell’indipendenza del potere giudiziario, dell’imparzialità e dello stato di diritto”, supportare “i giudici sottoposti a pressioni” e favorire “una cultura dell’integrità giuridica che supera i confini”.

Lo stesso compito spetta alle corti giudiziarie le quali “devono impegnarsi più apertamente con la società, rendendo più chiaro il loro lavoro e rafforzando la propria legittimazione […] Se le corti vacillano, la democrazia stessa inizia a sgretolarsi. Se resistono, esse rimarranno l’ultimo baluardo a difesa di un potere populista privo di contrappesi. In uno snodo critico come questo, il potere giudiziario deve fare ben più che sopravvivere: deve resistere a testa alta”. 

Parole e concetti alti ma, per chi scrive, condivisibili solo in parte.

L’indipendenza e l’imparzialità dei giudici sono valori essenziali, in difetto dei quali un Paese e il suo ordinamento non possono dirsi democratici, sempre che, beninteso, si accetti l’idea, sfortunatamente non più così scontata quanto piacerebbe e servirebbe, che uno dei cardini della democrazia siano lo Stato di diritto (rule of law) e tutte le sue implicazioni.

È indubbio che il potere giudiziario debba concorrere al mantenimento della condizione democratica, che questo suo compito passi attraverso l’esercizio concreto della giurisdizione che deve essere trasparente, convincente e conforme essa stessa allo Stato di diritto e che, infine, un ruolo possa averlo anche l’associazionismo giudiziario, promuovendo la cultura dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice e del suo giudizio.

È ugualmente vero che si sta manifestando in più Paesi europei, anche tra quelli aderenti all’Unione europea, una crescente insofferenza degli Esecutivi nei confronti del potere giudiziario e una progressiva tendenza alla contestazione delle sue prerogative ed alla messa in discussione dei suoi atti.

Tutto vero.

Ciò che pare mancare nell’analisi della Adamska-Gallant è una riflessione anche minima e, in ipotesi, anche un’ammissione altrettanto minima su tre aspetti cruciali: se sia possibile e giusto considerare il potere giudiziario come un corpo unitario senza al suo interno differenziazioni culturali, ideologiche, politiche anche profonde; se, ammessa questa possibilità e considerandola conforme a ciò che è nella realtà, almeno alcune parti del potere giudiziario non si sentano e quindi non siano affatto antagoniste del populismo politico nel senso di non avversarlo o addirittura di affiancarlo; se, infine, alcune parti del potere giudiziario siano esse stesse portatrici di un’autonoma ideologia populista che, anziché seguire a quella politica, la anticipi e la conformi.

In altri termini: sul piano di ciò che definiamo populismo, è corretto affermare che, sempre e soltanto, la politica lo crea e lo pratica e la magistratura lo avversi e si schieri, sempre e soltanto, a favore dello Stato di diritto?

Non pare corretto, decisamente.

Assumiamo come campo di osservazione ciò che avviene nel nostro Paese.

È fatto così notorio da non doverlo né spiegare né giustificare che, con tutte le lodevoli e non marginali eccezioni che pure non sono mancate, l’associazionismo giudiziario, tracimando dai suoi compiti culturali, abbia finito per trasformarsi in un centro di potere volto a condizionare il governo della magistratura, per di più auto-attribuendosi compiti di interlocuzione, non di rado pressante e oppositiva, con la politica istituzionale in rappresentanza di tutto l’ordine giudiziario.

Parti dell’associazionismo giudiziario si sono spinte fino al collateralismo ed al consociativismo con la politica, ciascuna di esse nella direzione ritenuta più affine alla propria visione e ai propri interessi.

Al di fuori dell’associazionismo, o comunque ostentando autonomia dallo stesso, si sono formate cerchie di magistrati che hanno fatto delle loro funzioni, delle motivazioni etiche che le hanno sorrette, della direzione in cui le hanno esercitate e dei territori in cui hanno agito, una sorta di manifesto politico, provando in alcuni casi a trasformarlo in programmi politici in senso stretto, ora portando questo loro bagaglio dentro formazioni già esistenti, ora addirittura tentando di costituire essi stessi nuove aggregazioni.

Sono nati e prosperati fino al punto di diventare forze di governo movimenti politici che hanno incorporato queste visioni etiche e le hanno trasformate in punti essenziali del loro programma.

Sono gli stessi movimenti e gli stessi programmi, peraltro affiancati da veri e propri network cui non difetta la potenza mediatica, che molti osservatori hanno ritenuto essere marcatamente populisti, in quella particolare forma di populismo cui si dà il nome di giustizialismo della quale non si fatica a cogliere traccia, parallelamente, in alcune decisioni giudiziarie e in alcuni orientamenti interpretativi di merito e di legittimità.

Tutto questo, se si vuole essere onesti e ammettere la realtà così com’è, è avvenuto e avviene ancora nel nostro Paese.

E quindi le domande con cui si conclude: qual è il potere giudiziario che è disposto a riconoscersi davvero nell’appello dell’Adamska-Gallant e che può farlo avendo le carte in regola?