Il Taser non uccide…ma qualcuno muore lo stesso (Vito Daniele Cimiotta)

In Italia, il Taser è stato accolto come la soluzione moderna, una tecnologia che avrebbe dovuto segnare una svolta nell’uso della forza da parte delle forze di polizia. “Non letale” dicono, un’arma che dovrebbe ridurre al minimo i danni, un’alternativa meno cruenta per mettere a tacere la violenza. Ma la realtà è ben più cruda, e l’elegante dicitura “non letale” si sgretola davanti alla vita spezzata di chi ha subito quella scarica elettrica.

Negli ultimi tempi, abbiamo assistito a casi che dovrebbero scuotere le coscienze di chi decide di usarlo e di chi dovrebbe controllarne l’impiego.

A Pescara, a Genova, a Olbia e in molte altre città, persone disarmate, fragili, in stato di disagio sono state sottoposte a quella scarica che si pretende innocua. Eppure, qualcuna di queste persone non ce l’ha fatta. Sono morte poco dopo, come se la scarica fosse stata il tocco finale, il colpo di grazia invisibile.

Ma qui si apre il sipario su un teatro grottesco: le procure indagano, certo, come devono. Ma ogni volta l’esito sembra scritto: la morte “non è stata causata dal Taser”.

La perizia medico-legale parla di cause naturali, di malori improvvisi, di patologie pregresse, di fattori concomitanti. Una sentenza anticipata, una cortina fumogena che solleva il velo dall’imbarazzo istituzionale, ma non dall’orrore dei fatti. La scarica elettrica, dunque, non uccide mai ufficialmente. E se muori, sarà certamente per altri motivi. È questa la versione che vogliono farci digerire.

Ma la domanda cruciale rimane senza risposta: se il Taser non uccide, perché ogni sua applicazione deve essere seguita da indagini, perizie, interrogazioni?

Perché ogni volta si accende un dibattito sulla necessità di verifiche più approfondite, di controlli più stringenti? Se davvero fosse innocuo, non ci sarebbe alcun bisogno di tanta precauzione.

Questa impunità di fatto è un insulto alla dignità umana e un’offesa ai principi fondamentali del diritto. Perché dietro il termine “non letale” si cela troppo spesso un uso sproporzionato e mal calibrato di una forza che, a conti fatti, provoca danni irreparabili. La linea sottile tra difesa e abuso è stata ampiamente superata, e chi dovrebbe vigilare preferisce chiudere un occhio e rifugiarsi dietro formule di comodo.

Non si tratta solo di un problema tecnico o di una questione di diritto penale: è una violazione dei diritti umani nella sua forma più grave e subdola. Il diritto alla vita, sancito da ogni carta costituzionale degna di questo nome e dalle convenzioni internazionali, viene calpestato con una disinvoltura che rasenta la crudeltà. L’uso del Taser in situazioni di fragilità psichica o fisica, senza alternative realmente praticabili, rappresenta un trattamento crudele, inumano e degradante.

Una tortura elettrica che lascia segni, traumi, ferite invisibili ma profondissime.

La comunità internazionale osserva e denuncia.

Organizzazioni per i diritti umani ripetono da anni che senza protocolli rigorosi, trasparenza e responsabilità chiara, il Taser diventa una miccia pericolosa, un mezzo che può facilmente trasformarsi in strumento di abuso e violenza sistematica. Ma in Italia, come altrove, questa denuncia cade nel vuoto, soffocata da interessi istituzionali, dalla necessità di mantenere un’immagine “pulita” delle forze di polizia.

Il risultato è un circolo vizioso di negazioni e silenzi. Le vittime restano senza giustizia, le famiglie senza risposte, la società intera privata di quella verità che dovrebbe essere un diritto imprescindibile. Perché la responsabilità, quel concetto fondante della convivenza civile, qui sembra evaporare nel nulla.

Non c’è colpevole, non c’è causa: c’è solo un tragico destino segnato da una scarica elettrica, ma una scarica che ufficialmente non uccide.

È questa la menzogna più amara: far credere che la tecnologia possa essere neutra, che basti etichettare un’arma come “non letale” per renderla innocua, per depennare ogni rischio di abuso. Ma la vita umana non è una variabile da minimizzare né un rischio da accettare come inevitabile. È un valore sacro, che deve sempre prevalere sulla comodità delle procedure e sul silenzio delle istituzioni.

Fino a quando il Taser sarà utilizzato senza regole ferree, senza controlli rigorosi, senza la certezza di una responsabilità concreta e condivisa, ogni scarica resterà una condanna inascoltata, un grido soffocato di giustizia negata.

E allora, il Taser che non uccide… diventa l’arma di chi uccide senza mai pagare il prezzo delle proprie azioni.