Garanzie difensive limitate quando si telefona all’avvocato in presenza della polizia giudiziaria, nel caso bisogna limitarsi all’essenziale e fare attenzione a quanto si dice.
Così si può riassumere il caso esaminato dalla cassazione sezione 6 con la sentenza numero 32256 del 2 ottobre 2025 in merito alla utilizzabilità della conversazione tra indagato e difensore contattato nella immediatezza dei fatti in presenza della polizia giudiziaria.
La Suprema Corte ha sottolineato che quanto alla utilizzabilità della conversazione tra il ricorrente e l’avvocato da questi contattato nella immediatezza dei fatti, va evidenziato come, al di là dell’ambito che si voglia riconoscere all’art. 103 cod. proc. pen., è indubbio che nel caso di specie non siano stati disposti né mezzi di ricerca della prova, né controlli sulla corrispondenza tra l’indagato e il difensore.
In particolare, nessun riferimento può essere compiuto alle intercettazioni regolate dagli artt. 266 e segg. cod. proc. pen. che consistono nella captazione occulta e contestuale di una comunicazione o conversazione tra due o più soggetti che agiscano con l’intenzione di escludere altri e con modalità oggettivamente idonee allo scopo, attuata da soggetto estraneo alla stessa mediante strumenti tecnici di percezione tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del suo carattere riservato.
Nel caso di specie, si è trattato di una conversazione ascoltata casualmente dalla polizia giudiziaria il cui contenuto è stato documentato; un ascolto del colloquio conseguente non ad una indebita violazione della riservatezza, quanto, piuttosto, dal comportamento degli interlocutori.
La Corte di cassazione ha già spiegato come nessun dubbio possa nutrirsi circa l’utilizzabilità della descrizione che gli operanti facciano delle condotte tenute in loro presenza dall’indagato o da quanto dagli stessi appreso casualmente in loro presenza mentre l’indagato parla con una terza persona; si tratta di dichiarazioni che non sono in nessun modo stimolate dalla polizia giudiziaria, che, tuttavia, è testimone diretta di un fatto poi documentato (cfr., sul tema, Sez. 2, n. 52539 del 03/11/2016, Venneri, Rv. 268708).
Nel caso di specie la polizia avrebbe operato, nei giorni immediatamente precedenti l’arresto, tre appostamenti nei confronti dell’indagato da cui non sarebbe emerso alcunchè e che gli indizi sarebbero costituiti da una parte, dal fatto che F. fosse possessore delle chiavi per entrare nell’abitazione della M. – con la quale il ricorrente era da poco convivente ma non residente – in cui fu trovata la sostanza stupefacente, e dall’altra, dal contenuto del colloquio tra l’indagato e il suo difensore in cui il primo avrebbe “parlato del ritrovamento di due kg. di stupefacente” (così il ricorso).
La droga sarebbe stata trovata su indicazione della M. che aveva rivendicato subito la partenità della sostanza stupefacente.
Nella disponibilità dell’imputato non sarebbe stato trovato alcunchè di riconducibile alla droga e nemmeno nella di lui autovettura; sulla persona del ricorrente fu trovata una sola dose di cocaina; la cocaina non fu trovata nell’abitazione della M.
In tale contesto si colloca la conversazione tra l’indagato e il difensore riportata nel seguente modo nell’annotazione di polizia giudiziaria ” il F. chiedeva se era possibile contattare telefonicamente l’avvocato di fiducia e durante la conversazione, alla nostra presenza, gli riferiva che erano stati rinvenuti kg. 2 di sostanza stupefacente di tipo hashish all’interno della abitazione della sua compagna, sostanza che al momento non era stata ancora pesata dagli operanti”.
