Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 28050/2024, udienza del 14 giugno 2024, ha riconosciuto la legittimità della richiesta di interrogatorio di un indagato contenuta all’interno di una memoria depositata dal suo difensore dopo la notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari ma, al tempo stesso, ha ravvisato un difetto di lealtà ed un abuso del processo nell’inserimento della richiesta medesima all’interno di un documento ben più ampio, congegnato in modo da renderne disagevole l’identificazione.
L’art. 415-bis, comma 3, cod. proc. pen. dispone che l’indagato, entro venti giorni dalla notificazione dell’avviso di conclusioni delle indagini preliminari, «può chiedere al pubblico ministero il compimento di atti di indagine, nonché di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio. Se l’indagato chiede di essere sottoposto ad interrogatorio il pubblico ministero deve procedervi».
La violazione di tale ultimo adempimento determina una nullità generale a regime intermedio per lesione del diritto di difesa, come di recente ribadito dalla Suprema Corte (Sez. 2, n. 22364 del 24/03/2023, Rv. 284719, che ha pure confermato la natura ordinatoria di detto termine, cosicché le facoltà previste da detta norma possono essere esercitate fino alla richiesta di rinvio a giudizio).
Nel caso in esame, tramite la memoria depositata a seguito della notifica dell’avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen., il difensore, dopo avere sostenuto la mancanza degli elementi costitutivi del reato previsto dall’art. 474 cod. pen., ha argomentato in ordine alla insussistenza del reato di ricettazione: “Ancora, nessun accertamento risulta essere stato compiuto sulla provenienza dei beni in sequestro; da ciò deriva che la condotta tenuta dall’indagato che chiede l’interrogatorio non può in alcun modo integrare l’ipotesi di reato di cui all’art. 648 c.p. per la quale non può dirsi raggiunta la prova“, deducendo che in ogni caso sarebbe stata ravvisabile l’attenuante del fatto di particolare tenuità. Il difensore, in conclusione, chiedeva al PM di richiedere l’archiviazione del procedimento “con la formula liberatoria più ampia, o comunque in quanto il fatto non costituisce reato, ovvero modificare la provvisoria imputazione, considerando l’ipotesi lieve di cui al secondo comma dell’art. 648 c.p.“.
Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, affinché il PM sia tenuto a procedere all’interrogatorio dell’indagato, la relativa richiesta, pur non necessitando di formule sacramentali, deve essere formulata nella memoria in maniera chiara, esplicita ed inequivocabile, insuscettibile di interpretazioni alternative. In forza di questo principio si è affermato che la richiesta da parte dell’indagato detenuto di conferire per motivi di giustizia con il PM, avanzata a seguito della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, potendo rispondere a molteplici finalità e non contenendo specificamente la manifestazione della volontà di rendere interrogatorio, non determina il dovere del PM di espletare l’atto (Sez. 1, n. 48846 del 24/09/2013, Rv. 258102).
Detto obbligo non sorge neppure a fronte di una generica disponibilità dell’indagato a essere sentito, considerato che – come già ricordato – l’art. 415- bis, comma 3, prevede che egli possa chiedere al PM di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero di essere interrogato: in entrambi i casi viene formulata una richiesta, ma solo nel secondo da essa discende il dovere di disporre l’incombente (Sez. 4, n. 16824 del 20/04/2022, Rv. 283207; Sez. 2, n. 21779 del 18/02/2014, Rv. 259708).
In altra pronuncia di legittimità si è precisato che la circostanza che la richiesta dell’indagato di essere interrogato, espressa in termini chiari ed inequivocabili, sia contenuta nel corpo della memoria «è del tutto irrilevante, sussistendo un onere per il pubblico ministero di analisi dell’atto difensivo e non esistendo alcuna norma che imponga di inserire la richiesta in uno specifico petitum» (Sez. 3, n. 6922 del 17/12/2018, dep. 2019, Rv. 275002, in una fattispecie in cui è stata considerata rituale la richiesta di interrogatorio contenuta nel corpo della memoria, in quanto esplicita e collegata a uno dei reati oggetto di contestazione).
Va confermato l’orientamento espresso sul tema dalla costante giurisprudenza di legittimità, anche in relazione all’ultimo principio ora ricordato: la circostanza che la richiesta di interrogatorio, formulata in modo esplicito e inequivocabile, sia contenuta nel corpo della memoria non è di per sé ostativa al fine di ritenere sussistente l’obbligo del PM di invitare l’indagato a presentarsi per rendere l’interrogatorio, previsto a pena di nullità ex art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. (nullità evidentemente insussistente qualora poi l’indagato non si presenti: v. Sez. 3, n. 24592 del 06/04/2017, Rv. 270341).
Sono necessarie, però, alcune puntualizzazioni, in quanto questa affermazione va letta alla luce di altri fondamentali principi da tempo presenti nella elaborazione giurisprudenziale della Cassazione.
Ci si riferisce, in primo luogo, alla nozione di abuso del processo che riposa sulla consolidata e risalente nozione generale dell’abuso del diritto, riconducibile al paradigma dell’utilizzazione per finalità oggettivamente diverse e collidenti rispetto all’interesse in funzione del quale il diritto è riconosciuto.
Con una rilevante pronuncia le Sezioni unite penali, richiamando la giurisprudenza delle Sezioni unite civili, della Corte di Strasburgo e della Corte di Lussemburgo, hanno affermato che l’abuso del processo consiste «in un vizio per sviamento della funzione; ovvero, secondo una più efficace definizione riferita in genere all’esercizio di diritti potestativi, in una frode alla funzione», cosicché, quando si realizza uno sviamento o una frode alla funzione, «l’imputato che ha abusato dei diritti o delle facoltà che l’ordinamento processuale astrattamente gli riconosce non ha titolo per invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà effettivamente perseguiti» (Sez. U, n. 155 del 29/09/2011, dep. 2012, Rossi, Rv. 251496).
In secondo luogo, dall’art. 105, comma 4, cod. proc. pen. si evince che nel processo penale anche il difensore dell’imputato ha «doveri di lealtà e probità»: la sua attività professionale va svolta con lealtà e correttezza, in aderenza ai principi previsti nel processo civile (art. 88 cod. proc. civ.) e nel codice deontologico forense, senza che ovviamente ciò possa in alcun modo pregiudicare l’esercizio di attività, facoltà e garanzie previste nel codice di rito a tutela dell’inviolabile diritto di difesa.
Anche le Sezioni unite penali hanno affermato che il principio di lealtà processuale «deve comunque improntare la condotta di tutti i soggetti del procedimento», compreso il difensore dell’indagato o imputato (Sez. U, n. 36258 del 24/05/2012, Biondi, Rv. 253152), con una statuizione ripresa e condivisa successivamente con ampie argomentazioni (v. Sez. 3, n. 4376 del 13/12/2013, dep. 30/01/2014, non mass.; in senso esattamente conforme cfr. Sez. 2, n. 52215 del 28/10/2016, Rv. 268513), ribadita ancora di recente (Sez. 2, n. 11753 del 24/01/2024). Avuto riguardo a questi principi, va evidenziato che nel caso di specie – come si è visto, riportando testualmente il passo rilevante della memoria – la richiesta di interrogatorio era stata effettivamente espressa “con una sorta di incidentale imprevista”, in un periodo in cui venivano svolte argomentazioni giuridiche sulla insussistenza del reato di ricettazione e quindi risultava “inserita in una proposizione linguistica che recava un contenuto diverso, ben più ampio”, come con fondamento sostenuto dal PG ricorrente. A ciò si aggiunga che – come si è detto – nelle conclusioni il difensore aveva invitato il PM a chiedere l’archiviazione ovvero a modificare la imputazione provvisoria, senza alcun riferimento alla necessità di svolgere l’interrogatorio in precedenza sollecitato con le descritte anomale modalità, tali da poter trarre in inganno il magistrato inquirente, che legittimamente potrebbe non essersi avveduto di una richiesta che, nella sostanza, difettava del requisito della chiarezza, intesa anche quale agevole riconoscibilità.
Esclusa, dunque, la nullità del decreto di citazione a giudizio emesso dal PM e conseguentemente della pronuncia di primo grado, la sentenza impugnata va annullata per nuovo giudizio con rinvio alla Corte di appello competente.
